La mia esperienza del conflitto arabo-israeliano, che ci fa impazzire da settantacinque anni, mi ha mostrato, al di là della questione strettamente politica, il nucleo psicotico di questa relazione sanguinosa. È questo angolo cieco che vorrei affrontare. Nella storia dei popoli, come in quella degli individui, arriva un momento in cui l’aggravarsi di un sintomo richiede un’analisi che, al di là dei fatti, risalga alle origini del trauma. Tra un paranoico introverso che si sente minacciato e un paranoico che uccide c’è una bella differenza.

Questa differenza è stata superata il 7 ottobre 2023. Da allora ogni giorno è stato una caricatura del precedente: un delirio a cui la mente si abitua come sotto l’effetto di una droga, come se non avesse niente da dire o nulla di meglio da dire. Come se questo diluvio di fuoco fosse normale per il semplice fatto che esiste. Eravamo in una situazione nevrotica, ora ci troviamo sulla soglia di una vertigine generale, psicotica. Nella nevrosi, la realtà mette alla prova o sfinisce il soggetto; nella psicosi, il soggetto perde di vista la realtà.

Il posto che chiamiamo Terra santa è diventato un luogo di trasmissione di una paura divorante, una paura ontologica: la paura di scomparire

Il posto che chiamiamo Terra santa è diventato un luogo di trasmissione di una paura divorante, ontologica: la paura di scomparire. L’antica Palestina, l’attuale Israele, Gaza, la Cisgiordania e, soprattutto, Gerusalemme non sono più spazi misurati in chilometri quadrati, non sono più territori fisici, sono paesi di un territorio informe dove la difesa di sé attraverso la cancellazione dell’altro avviene con indicibile crudeltà. Al prezzo inevitabile della verità, a beneficio inevitabile della morte. Il Libano sta per essere risucchiato nell’uragano. Tutto avviene dal lato della potenza militare israeliana, come se la distruzione avesse il potere di costruire, come se l’annientamento fisico fosse una risorsa per il futuro. Come se per lottare contro la parte insopportabile della memoria si dovesse riprodurla, invece di ripararla.

Con la guerra in corso, la morte travolge quelli che la danno. Dal loro punto di vista, dovrebbe ripulire e svuotare. Fa il contrario: sul terreno delle vite e degli edifici bruciati sorgono i demoni indomabili dell’odio. L’intelligenza umana non è più in grado di rispondere, di mantenere i suoi riflessi. Si consegna alla legge provvisoria del più forte. Da qui deriva questo inconcepibile silenzio planetario di fronte alla follia in corso. L’unica eccezione rassicurante è l’emissione dei mandati di arresto della Corte penale internazionale per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della difesa Yoav Gallant e il leader del braccio armato di Hamas Mohammed Deif, presumibilmente morto.

Che si parli di islam politico o di ebraismo politico, un fenomeno perverso vuole che il riconoscimento di sé passi dalla negazione dell’altro. Nel primo caso, le donne sono prese in ostaggio e la libertà è sacrificata. Nel secondo caso, s’ipoteca il destino della regione e quello degli ebrei nel mondo. In entrambi i casi la disastrosa assenza di soluzioni politiche ha rotto gli argini posti dalla ragione.

Per “soluzione politica” intendo il posto che la giustizia avrebbe dovuto avere nella gestione dei rapporti di forza. Questo posto è sempre più spesso disertato dalle grandi potenze, la cui responsabilità è incommensurabile. In cambio, assistiamo alla normalizzazione dell’incoerenza. La dissoluzione dell’essere nel calderone dell’identità. La realtà si ritira come un essere spaventato, scindendosi e dividendosi. Si formano dei blocchi. In quelli che resistono, la gente va tranquillamente al lavoro, al bar o a casa. In quelli che crollano, ci chiediamo se il muro cadrà, se nostro figlio è ancora vivo.

Per quanto riguarda i fatti, gli storici, a partire da quelli israeliani, hanno stabilito che la creazione dello stato di Israele all’indomani della seconda guerra mondiale è avvenuta a spese di un popolo: quello palestinese. L’orrore della Shoah implicava chiaramente il diritto del popolo ebraico alla sicurezza. Ma come? In quale forma? A quali condizioni? Queste domande, che riguardano il futuro di Israele e della regione, sono state a dir poco subappaltate dagli europei. Hanno proclamato il diritto all’esistenza molto più di quanto lo abbiano protetto. Hanno violato con il forcipe il tempo che ha dato vita al presente, secondo la logica coloniale che ancora avevano. Hanno deportato il loro senso di colpa e la loro vergogna, li hanno esportati.

Con la complicità attiva di molti regimi arabi, quello israeliano ha voluto imporre il consenso dell’oblio: l’oblio della Palestina, la sua semplice cancellazione

Israele è stato quindi creato da una necessità innegabile, ma in un luogo e su fondamenta molto discutibili. Il 1948, atto di nascita di Israele, il giorno dopo che gli arabi avevano rifiutato un piano di divisione territoriale che riservava allo stato ebraico il 56 per cento del territorio della Palestina, fu la data decisiva di un trapianto innestato su un corpo indebolito dalla sua divisione più o meno arbitraria durante gli anni venti.

Ne seguì una guerra. Gli arabi la persero: fu l’inizio di un ciclo infernale di sconfitte nascoste dall’arroganza. Da allora, hanno preferito aspettare che la storia rimediasse alla loro disfatta, invece di cambiarne loro stessi il corso. Per i palestinesi questa catastrofe si chiama Nakba (in arabo è il termine con cui si fa riferimento agli eventi che portarono i palestinesi a perdere le loro case e diventare profughi).

Israele s’insediò così sul 78 per cento del territorio. Nel giro di un anno, l’intera mappa della regione fu stravolta. I rifugiati furono sradicati dalle loro terre e ammassati in campi in Giordania, Libano, Siria e nel resto della Palestina. Questa operazione chirurgica, alimentata da un ritorno alla Bibbia come libro di storia, è stata celebrata da alcuni e compianta da altri. Vedendo oggi i soldati israeliani sfilare intorno alle case che hanno appena distrutto, finendo i moribondi mentre li spingono a calci nel vuoto, chi può negare l’estremo pericolo che fanno pesare sul futuro di chi pretendono di difendere?

La seconda sconfitta araba nel corso della cosiddetta guerra dei sei giorni, nel 1967, si concluse con l’occupazione israeliana del Sinai, delle alture del Golan, della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est.

I decenni successivi gettarono i regimi arabi in una frenetica corsa al denaro, senza alcun riguardo per l’etica e il pensiero critico. Quegli anni hanno condannato Israele a chiudersi su se stesso e a riprodurre il circolo vizioso di occupazione, saccheggio e negazione, con la guerra come unica opzione per la sicurezza.

Da quel momento in poi, il peggior nemico dei regimi israeliani non è stato tanto il popolo palestinese in carne e ossa, quanto la rappresentazione che se ne doveva fare. Dove collocarlo in termini d’immaginazione dopo averlo espropriato dei suoi averi?

“Da nessuna parte” è stata la risposta più comune, perché era la più comoda. In questa logica, gli attacchi terroristici sono serviti perfettamente allo scopo, perché hanno riempito il vuoto con l’immagine inquietante di giovani uomini in passamontagna, pronti a uccidere, pronti a morire.

Rifiutando di riconoscere la propria parte nel crimine, Israele rischia che gli si ritorca contro. Così come non c’è psicoanalisi efficace che non lavori sul negativo, non c’è progresso storico che non tenga conto della ragione opposta. I dissidenti israeliani e molti intellettuali ebrei lo sanno e lo dicono meglio di chiunque altro. Quanto ai dissidenti arabi o iraniani, di solito finiscono in prigione, quando non vengono eliminati.

Con la complicità attiva di molti regimi arabi, quello israeliano ha voluto imporre il consenso dell’oblio: l’oblio della Palestina, la sua pura e semplice cancellazione. Era anche il piano di Donald Trump durante il suo primo mandato da presidente degli Stati Uniti. Non ha funzionato. Si sta preparando a colpire ancora più forte.

Entrambe le parti dimenticano che le bombe non bastano a uccidere la verità che, a differenza di noi formiche, è indistruttibile. ◆ adg

Questo articolo è uscito su Le Monde.

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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati