Se il tempo lo permette, il traghetto da Livorno attracca due volte alla settimana sull’isola di Gorgona. La traversata dura un’ora. Sono pochi i turisti che visitano una delle ultime isole usate come carcere in Europa. È dal 1869 che quest’isola di due chilometri quadrati nel mar Tirreno è popolata da detenuti. Oggi ne ospita fino a ottanta, tutti uomini, in quello che è un esperimento innovativo di reinserimento per un sistema penitenziario cronicamente sovraffollato e con pochi fondi come quello italiano. È un carcere aperto: i detenuti sono chiusi nelle loro celle dalle otto di sera alle sei del mattino. All’alba le porte di ferro sono aperte e sono liberi di uscire. Vanno a lavorare nei frutteti, nelle vigne o ad accudire gli animali.
Alcuni sono impiegati in cucina, altri puliscono o si occupano della manutenzione dei fatiscenti edifici del carcere. Nel pomeriggio possono fare volontariato, sport o partecipare ad attività culturali. Oppure incontrare dei visitatori o pranzare con le loro famiglie. Tutti i detenuti, spesso criminali che stanno per finire di scontare condanne per reati gravi, sono pagati per il loro lavoro. Una parte dello stipendio è usata per il loro mantenimento, una va alle loro famiglie e una è messa da parte per quando saranno rilasciati.
Quindici detenuti lavorano per l’azienda vinicola Frescobaldi e coltivano un premiato vino bianco, il Gorgona, che può costare anche novanta euro a bottiglia. Se ne producono solo quattromila all’anno. I reclusi non possono assaggiare il frutto del loro lavoro, ma sono pagati come gli altri dipendenti dell’azienda, che ha sei tenute sulla terraferma. Intorno al vigneto ci sono gli orti con pomodori, melanzane, zucchine e basilico. Sull’isola si producono anche formaggio, pane e miele.
Unico candidato
Un esperimento avviato trent’anni fa da Carlo Mazzerbo, un ambizioso e giovane agente penitenziario stufo di lavorare in un carcere di massima sicurezza. “Quando seppi che c’era l’opportunità di andare a Gorgona la colsi al volo”, ricorda. “Ero l’unico candidato. Pensavo che sarei rimasto solo due o tre anni, ma poi mi sono innamorato del posto. Così ho potuto realizzare un sistema penitenziario più umano, in cui ci si può guardare negli occhi”. È diventato il progetto di una vita e Mazzerbo ha lottato per mantenere aperto il carcere, guadagnandosi anche il sostegno della famiglia Frescobaldi e di alcuni artisti italiani. Nel 2022 è andato in pensione e ora teme per il futuro dell’istituto, anche se il tasso di recidiva è del 20 per cento, contro una media in Italia di circa il 70 per cento. Mazzerbo ha convinto il regista Gianfranco Pedullà a lavorare con i detenuti, portando sull’isola la sua compagnia Teatro popolare d’arte. La scorsa estate hanno messo in scena uno spettacolo all’aperto, le Metamorfosi di Ovidio. “C’è il rischio che la struttura sia chiusa”, dice l’ex direttore. “Per questo ho investito molto sulle relazioni pubbliche, sul coinvolgimento delle aziende e dell’amministrazione comunale, che finora si sono impegnate a tenerla aperta”.
Eravamo solo numeri
Alcuni detenuti chiacchierano appoggiati a un muro, tengono le sigarette nel palmo della mano per ripararle dal vento. “Qui nessuno mi ha mai chiesto cosa ho fatto”, dice Vito, che per quattordici anni è stato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, vicino a Napoli. “Qui c’è umanità. Quando hai dei problemi ti ascoltano e gli agenti cercano di aiutarti”.
A Santa Maria Capua Vetere le rivolte erano all’ordine del giorno e nel 2022 sono stati rinviati a giudizio 105 agenti e funzionari per violenze contro i detenuti avvenute nel 2020. Più tardi, nelle cucine, Luigi, un ex detenuto dello stesso carcere, racconta: “Lì eravamo solo numeri. Ho visto molti suicidarsi per sfuggire ai continui maltrattamenti”. Gli altri detenuti con cui parlo hanno ricordi amari delle altre carceri. Tutti ora stanno meglio. Uno di loro ha appena pubblicato il suo primo romanzo. Un altro, condannato per aver ucciso il socio in affari, racconta che quando sua moglie gli fece visita per la prima volta non riusciva a guardarlo negli occhi. Ora quando sarà rilasciato celebreranno di nuovo la loro unione.
Pierangelo Campolattano, agente penitenziario, che ha trascorso gran parte della sua carriera sull’isola, racconta: “Viviamo in una sorta di comunità in cui ognuno ha il suo ruolo. È un modello con un grande potenziale, da replicare”. ◆nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati