Maurice Sendak, oltre che ottimo scrittore, è stato soprattutto un grande pittore del libro illustrato per ragazzi. Fondamentale anche per gli adulti interessati nel profondo all’immagine che rielabora, con poesia e potenza figurativa, le paure infantili e i suoi archetipi. E quindi fondamentale anche per le sue corrispondenze con la storia del fumetto, a cominciare dal Little Nemo di Winsor McCay che lo precede. Ma qui dimostra di essere anche un gran disegnatore del tratto, del segno grafico nella sua essenzialità. L’essenzialità per raggiungere l’essenza delle cose. “Troppo colore distrae lo spettatore”, diceva Jacques Tati, e a volte, paradossalmente, questo è il problema della pittura. Ora, tutti i maestri della storia del fumetto sono stati anche maestri del segno, lo hanno indagato all’infinito rivelando le sue molteplici possibilità e la sua potenza espressiva ed evocativa, entrambe spesso sottovalutate. Qui Sendak, con quest’opera del 1960, trasfigura una sorta di reminiscenza della giovinezza in una fotografia di vita di quartiere autentica ed umanistica dove i bambini sono figurine ritratte da un segno aguzzo, preciso e diabolicamente espressivo, altrettanti burattini disegnati che corrono letteralmente nelle pagine mettendo tutto sottosopra a cominciare dalla logica, dall’apparenza delle cose. Un caos grafico che è lo strumento per dimostrare che “ognuno può essere qualunque cosa riesca a immaginare”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati