Sotto i nostri piedi c’è un ecosistema così sorprendente da mettere alla prova i limiti della nostra immaginazione. È vario come una foresta pluviale o una barriera corallina. Dipendiamo da esso per il 99 per cento del nostro cibo, eppure lo conosciamo molto poco. Il suolo.
Alle medie latitudini della Terra, sotto un metro quadrato di terreno allo stato naturale possono vivere diverse centinaia di migliaia di piccoli animali. Circa il 90 per cento delle specie a cui appartengono non ha ancora un nome. Un grammo di quel terreno – meno di un cucchiaino – contiene più o meno un chilometro di filamenti fungini.
La prima volta che ho esaminato una zolla di terra con una potente lente d’ingrandimento riuscivo a malapena a credere a ciò che stavo vedendo. Non appena ho messo a fuoco è esplosa di vita. Ho visto subito collemboli – piccoli animali simili agli insetti – di decine di forme e dimensioni diverse. Ovunque c’erano acari rotondi simili a granchi: in alcuni terreni ce ne sono mezzo milione per metro quadrato.
Poi ho cominciato a vedere creature in cui non mi ero mai imbattuto prima. Quello che all’inizio mi era sembrato un piccolo millepiedi bianco si è rivelato una forma di vita completamente diversa, chiamata sinfilo. Ho visto qualcosa che poteva essere uscito da un anime giapponese: lungo e piatto, con due sottili antenne nella parte anteriore e due in quella posteriore, pronto a scattare come un drago o un cavallo volante. Era un dipluro.
Osservando la zolla ho trovato più e più volte animali la cui esistenza, nonostante la mia laurea in zoologia e una vita dedicata alla storia naturale, mi era ignota. Dopo aver esaminato per due ore un chilogrammo di terreno, mi sono reso conto di aver visto più rami del regno animale di quanti ne avrei visti in un safari di una settimana nel parco del Serengeti, in Africa.
Ma ancora più sorprendente della diversità e dell’abbondanza è la questione di cos’è davvero il suolo. La maggior parte delle persone lo vede come una massa inerte di rocce sbriciolate e piante morte. Ma in realtà è una struttura biologica, costruita da creature viventi per garantire la propria sopravvivenza, come un nido di vespe o le dighe dei castori. A partire dal carbonio, dei microbi producono una sostanza con cui uniscono le particelle di minerali, creando pori e passaggi attraverso cui passano acqua, ossigeno e nutrienti. Questi grumi diventano i blocchi che gli abitanti del suolo usano per costruire labirinti più grandi.
Il terreno ha una struttura frattale, il che significa che è simile in ogni scala di grandezza. Batteri, funghi, piante e animali, collaborando inconsapevolmente, creano un’architettura enormemente intricata e ramificata che, come la polvere dei romanzi di Philip Pullman, si organizza spontaneamente in mondi coerenti. Questa struttura biologica contribuisce a spiegare la resistenza del suolo a siccità e alluvioni: se fosse solo un mucchio di materia, verrebbe spazzato via.
Rivela anche perché il suolo si degrada così facilmente quando è coltivato. In certe condizioni, quando gli agricoltori usano fertilizzanti all’azoto, i microbi rispondono consumando il carbonio, cioè il cemento che tiene insieme le loro catacombe. I pori cedono. I passaggi crollano. Il terreno diventa fradicio, privo d’aria e compatto.
Il giardino segreto
Ma niente di tutto questo coglie la vera meraviglia del suolo. Partiamo da qualcosa che capovolge la nostra comprensione del modo in cui sopravviviamo. Le piante rilasciano nel suolo tra l’11 e il 40 per cento di tutti gli zuccheri che producono attraverso la fotosintesi. E non lo fanno per caso, ma deliberatamente.
Fatto ancora più strano, prima di rilasciarli trasformano alcuni di questi zuccheri in composti di enorme complessità. Produrre queste sostanze chimiche richiede energia e risorse, quindi sembra uno spreco. Perché lo fanno? La risposta ci apre il cancello di un giardino segreto. Queste sostanze chimiche complesse sono rilasciate nella zona che circonda le radici di una pianta, chiamata rizosfera. Le piante le rilasciano per gestire le loro relazioni. Il suolo è pieno di batteri. Il suo profumo terroso è l’odore dei composti che producono. Nella maggior parte dei luoghi, e il più delle volte, restano in attesa dei messaggi che li sveglieranno. Questi messaggi sono le sostanze chimiche che la pianta rilascia. Sono così complessi perché la pianta non vuole allertare tutti i batteri, ma solo quelli che favoriscono la sua crescita. Le piante usano un linguaggio chimico sofisticato che solo i microbi con cui vogliono comunicare possono capire.
Quando le radici di una pianta penetrano nel terreno e cominciano a rilasciare i loro messaggi, innescano un’esplosione di attività. I batteri che rispondono al richiamo si nutrono degli zuccheri emessi dalla pianta e proliferano per formare comunità microbiche tra le più dense della Terra. In un singolo grammo della rizosfera ci può essere un miliardo di batteri che sbloccano i nutrienti da cui dipende la pianta e producono ormoni della crescita e altre sostanze chimiche che la aiutano a svilupparsi. Il vocabolario della pianta cambia in base al luogo e al momento, a seconda di ciò di cui ha bisogno. Se è affamata di un certo tipo di nutrienti, o il terreno è troppo secco o salato, richiama le specie di batteri che possono aiutarla.
Se facciamo un passo indietro, vedremo qualcosa che cambia completamente la nostra comprensione della vita sulla Terra. La rizosfera si trova al di fuori della pianta, ma funziona come se fosse parte del suo organismo. Potrebbe essere considerata come il suo intestino esterno. Le somiglianze tra la rizosfera e l’intestino umano, abitato da un numero incredibile di batteri, sono sorprendenti. In entrambi i sistemi, i microbi suddividono il materiale organico nei composti più semplici che la pianta o la persona può assorbire. Sebbene ci siano più di mille phyla o gruppi principali di batteri, solo quattro di loro dominano sia la rizosfera sia l’intestino dei mammiferi.
Proprio come il latte materno umano contiene zuccheri chiamati oligosaccaridi, il cui scopo è quello di nutrire non il bambino ma i batteri nel suo intestino, le piante giovani rilasciano grandi quantità di saccarosio nel suolo, per nutrire e sviluppare i loro nuovi microbiomi. Proprio come i batteri che vivono nelle nostre viscere superano e attaccano gli agenti patogeni invasori, i microbi amici della rizosfera creano un anello difensivo intorno alla radice. E proprio come i batteri nel colon istruiscono le nostre cellule immunitarie e inviano messaggi chimici che innescano le difese del nostro corpo, il sistema immunitario della pianta è addestrato e preparato dai batteri della rizosfera.
Forse il suolo non è bello da vedere come una foresta pluviale o una barriera corallina, ma una volta che cominci a capirlo, lo è altrettanto per la mente. Da questa comprensione potrebbe dipendere la nostra sopravvivenza.
Stress estremo
Stiamo per affrontare quella che potrebbe essere la sfida più difficile che l’umanità abbia mai avuto davanti: nutrire il mondo senza divorare il pianeta. L’agricoltura è già la principale causa di distruzione degli habitat, della perdita globale di fauna selvatica e dell’estinzione di massa delle specie. È responsabile di circa l’80 per cento della deforestazione avvenuta dall’inizio del secolo. Delle 28mila specie considerate a rischio di estinzione, 24mila sono minacciate dall’agricoltura. Solo il 29 per cento della biomassa degli uccelli della Terra è costituita da specie selvatiche, il resto è pollame. Solo il 4 per cento di quella dei mammiferi del mondo è selvatica: gli esseri umani rappresentano il 36 per cento e il bestiame il rimanente 60 per cento.
A meno che qualcosa non cambi, le cose sono destinate a peggiorare, e di molto. In linea di principio c’è cibo in abbondanza, anche per una popolazione in aumento. Ma circa la metà delle calorie coltivate dagli agricoltori servono per nutrire il bestiame, e la domanda di prodotti animali è in rapido aumento. Senza un cambiamento radicale del modo in cui mangiamo, entro il 2050 il mondo dovrà coltivare circa il 50 per cento in più di grano. Come potremmo farlo senza spazzare via gran parte del resto della vita sulla Terra?
L’agricoltura sta distruggendo i sistemi essenziali del pianeta, e la loro distruzione minaccia il nostro approvvigionamento alimentare. Anche sostenere gli attuali livelli di produzione potrebbe rivelarsi impossibile. La destabilizzazione del clima probabilmente renderà i luoghi umidi più umidi e i luoghi asciutti più asciutti. Uno studio uscito su Nature Climate Change ipotizza che se la temperatura globale salisse di un altro grado il 32 per cento della superficie terrestre diventerebbe arida. Entro la metà di questo secolo gravi siccità potrebbero colpire contemporaneamente un arco di paesi che va dal Portogallo al Pakistan. E questo senza considerare la crescente fragilità economica del sistema alimentare globale o pressioni geopolitiche come l’attuale guerra in Ucraina, che potrebbero minacciare il 30 per cento delle esportazioni mondiali di grano.
Non è solo la quantità della produzione che è a rischio, ma anche la sua qualità. La combinazione di temperature più alte e concentrazioni più elevate di anidride carbonica riduce il livello di minerali, proteine e vitamine del gruppo B nelle colture. Già oggi la carenza di zinco colpisce più di un miliardo di persone. Anche se ne parliamo raramente, secondo una ricerca statunitense il calo della concentrazione di nutrienti è una “minaccia esistenziale”.
Alcuni agronomi ritengono che possiamo contrastare queste tendenze aumentando la produzione nei luoghi che resteranno coltivabili. Ma le loro speranze si basano su presupposti irrealistici. Il più importante dei quali è che l’acqua sia sufficiente. L’aumento previsto della resa delle colture richiederebbe il 146 per cento in più di acqua dolce rispetto a quella usata oggi. Ma quest’acqua non esiste.
Negli ultimi cento anni il nostro uso dell’acqua è aumentato di sei volte. L’irrigazione delle colture consuma il 70 per cento di quella che preleviamo da fiumi, laghi e falde acquifere. Quattro miliardi di persone soffrono già di scarsità d’acqua per almeno un mese all’anno, e 33 grandi città, tra cui São Paulo, Città del Capo, Los Angeles e Chennai, rischiano uno stress idrico estremo. Poiché le falde acquifere sono esaurite, gli agricoltori hanno cominciato a fare più affidamento sull’acqua di fusione dei ghiacciai e delle nevi. Ma anche questa sta diminuendo.
Un probabile punto critico è la valle dell’Indo, la cui acqua è usata da tre potenze nucleari (India, Pakistan e Cina) e da diverse regioni instabili. Già oggi preleviamo il 95 per cento della portata del fiume. Con la crescita delle economie e delle popolazioni, entro il 2025 in quella regione la domanda di acqua potrebbe essere superiore del 44 per cento rispetto all’offerta. Ma uno dei motivi per cui l’agricoltura è stata in grado di produrre di più e le città di crescere è che, a causa del riscaldamento globale, i ghiacciai dell’Hindu Kush e dell’Himalaya si sono sciolti più velocemente di quanto si siano accumulati, quindi nei fiumi scorre più acqua. Ma questa situazione non può durare. Entro la fine del secolo, da uno a due terzi della massa di ghiaccio potrebbero essere scomparsi. È difficile immaginare che finisca bene.
E tutto questo senza prendere in considerazione il suolo, il sottile cuscinetto tra roccia e aria da cui dipende la vita umana, e che consideriamo sporcizia. Mentre ci sono trattati internazionali sulle telecomunicazioni, l’aviazione civile, le garanzie sugli investimenti, la proprietà intellettuale, le sostanze psicotrope e il doping nello sport, non esiste un trattato globale sul suolo. L’idea che questo sistema complesso e poco compreso possa resistere a tutto ciò che gli facciamo e continuare a sostenerci potrebbe essere la più pericolosa di tutte le nostre illusioni.
Il degrado del suolo è già abbastanza grave nei paesi ricchi, in cui il terreno è spesso lasciato nudo ed esposto alle piogge invernali, compattato e distrutto da fertilizzanti e pesticidi che interrompono le sue catene alimentari. Ma la situazione è ancora peggiore nei paesi più poveri, in parte perché le piogge incessanti, i cicloni e gli uragani possono strappare il suolo dalla terra, e in parte perché le persone affamate sono spesso spinte a coltivare anche i pendii più ripidi. In alcuni paesi, soprattutto in America centrale, Africa tropicale e sudest asiatico, più del 70 per cento dei terreni coltivabili subisce una grave erosione, che minaccia la produzione futura.
La destabilizzazione del clima, che causerà siccità e temporali più intensi, aggrava il pericolo. La perdita della resilienza di un suolo può avvenire in modo incrementale e impercettibile. Potremmo non accorgercene fino a quando uno shock non spingerà il complesso sistema sotterraneo oltre il punto di non ritorno. Quando si verifica una grave siccità, il tasso di erosione del suolo degradato può aumentare di seimila volte. In altre parole, il suolo collassa. Le terre fertili si trasformano in distese di polvere.
Fiori dalle pietre
Di fronte a queste minacce alcuni chiedono di passare a un’agricoltura più locale e meno intensiva. Ma questa idea è matematicamente irrealizzabile. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Food ha rilevato che in media per raggiungere la popolazione mondiale i prodotti alimentari devono viaggiare per 2.200 chilometri. Per chi dipende dal grano e da altri cereali, i chilometri sono 3.800. Un quarto della popolazione mondiale che consuma queste colture ha bisogno di cibo che cresce ad almeno 5.200 chilometri di distanza.
Perché? Perché la maggior parte della popolazione mondiale vive in grandi città o valli popolose, il cui entroterra è troppo piccolo (e spesso troppo secco, caldo o freddo) per nutrirla. Gran parte del cibo del mondo dev’essere coltivato in vaste distese poco abitate – le praterie canadesi, le pianure degli Stati Uniti, della Russia e dell’Ucraina, l’entroterra brasiliano – e spedito in luoghi più popolati.
Ridurre l’intensità delle colture significa usare più terra per produrre la stessa quantità di cibo. L’uso della terra è probabilmente la più importante di tutte le questioni ambientali. Più terra è occupata dall’agricoltura, meno ne resta per foreste e zone umide, savane e praterie selvagge, e maggiore è la perdita di fauna selvatica e il tasso di estinzione. Qualunque tipo di agricoltura, anche la più attenta, comporta una radicale semplificazione degli ecosistemi naturali.
Stanno emergendo gli elementi di un nuovo sistema alimentare meglio distribuito, più diversificato e più sostenibile
Gli ambientalisti si scagliano contro l’espansione urbana: l’uso eccessivo della terra per l’edilizia abitativa e le infrastrutture. Ma l’espansione agricola, usando grandi quantità di terra per produrre piccole quantità di cibo, ha trasformato aree molto più vaste. Mentre l’1 per cento della terra del mondo libera dai ghiacci è usato per edifici e infrastrutture, le colture ne occupano il 12 per cento e i pascoli, il tipo di agricoltura più esteso, ne usano il 28 per cento. Solo il 15 per cento è lasciato alla natura. Eppure la carne e il latte degli animali che si nutrono solo pascolando forniscono solo l’1 per cento delle proteine del mondo.
Una ricerca ha cercato di capire che cosa succederebbe se negli Stati Uniti tutti seguissero i consigli degli chef famosi e passassero dalla carne di bovini nutriti con i cereali a quelli cresciuti nei pascoli. Dato che mangiando erba i bovini crescono più lentamente, il loro numero dovrebbe aumentare del 30 per cento, mentre la superficie terrestre necessaria per nutrirli aumenterebbe del 270 per cento. Anche se gli Stati Uniti abbattessero tutte le loro foreste, prosciugassero le loro zone umide, innaffiassero i loro deserti e distruggessero i loro parchi nazionali, avrebbero comunque bisogno di importare la maggior parte della carne bovina che consumano. Già oggi gran parte del manzo acquistato dagli Stati Uniti proviene dal Brasile, che nel 2018 è diventato il più grande esportatore del mondo. Questa carne è spesso pubblicizzata come “allevata al pascolo”. Molti dei pascoli brasiliani sono stati creati abbattendo illegalmente la foresta pluviale. In tutto il mondo, la produzione di carne potrebbe distruggere tre milioni di chilometri quadrati di terreni ad alta biodiversità in 35 anni. Quasi come la superficie dell’India.
Solo quando la densità del bestiame è molto bassa l’allevamento di animali è compatibile con ecosistemi ricchi e funzionali. Per esempio, il progetto Knepp wildland del West Sussex, in cui piccole mandrie di bovini e maiali vagano liberamente in una grande tenuta, è spesso citato come un modo per riconciliare il consumo di carne e la fauna selvatica. Ma anche se è un eccellente esempio di rewilding (ritorno allo stato naturale), è un pessimo esempio di produzione alimentare.
Se questo sistema dovesse essere applicato nel 10 per cento dei terreni agricoli del Regno Unito e se, come propongono i suoi sostenitori, ottenessimo tutta la nostra carne in questo modo, fornirebbe a ogni abitante 420 grammi di carne all’anno, sufficienti per circa tre pasti. Potremmo mangiare una bistecca di prima qualità circa una volta ogni tre anni. Se tutti i terreni agricoli del Regno Unito dovessero essere gestiti in questo modo, ci fornirebbero 75 chilocalorie al giorno (un trentesimo del nostro fabbisogno) di carne, e nient’altro.
Naturalmente non è così che sarebbe distribuito. I ricchi mangerebbero carne ogni settimana, gli altri mai. Chi dice che dovremmo comprare solo carne come questa, usando lo slogan “meno e meglio”, presenta un prodotto esclusivo come se fosse alla portata di tutti. Attivisti, chef e blogger si scagliano contro l’agricoltura intensiva e i danni che fa a noi e al mondo. Ma il problema non è l’aggettivo: è il sostantivo. La distruzione dei sistemi della Terra non è causata dall’agricoltura intensiva o da quella estensiva, ma da una disastrosa combinazione delle due.
Quindi cosa possiamo fare? Una risposta è ridurre al minimo la percentuale di produzione alimentare ottenuta con l’agricoltura. Per fortuna la tecnologia che lo consente è arrivata proprio quando ne avevamo bisogno. La fermentazione di precisione, che produce proteine e grassi dai batteri del suolo, alimentati con acqua, idrogeno, anidride carbonica e minerali, ha le potenzialità per sostituire tutto l’allevamento di bestiame, tutta la coltivazione di soia e buona parte della produzione di olio vegetale, riducendo in modo massiccio l’uso del suolo e altri tipi di impatto ambientale.
Ma questa notevole fortuna è minacciata dai diritti di proprietà intellettuale: potrebbe essere facilmente acquisita dalle stesse multinazionali che oggi monopolizzano il grano e il commercio di carne nel mondo. Dovremmo opporci con fermezza: i brevetti dovrebbero essere deboli e le leggi antitrust forti. Idealmente, queste tecnologie dovrebbero essere accessibili a tutti.
A quel punto potremmo rilocalizzare la produzione: le nuove tecniche di fermentazione potrebbero essere usate da aziende locali per servire il mercato locale. Poiché alcune delle nazioni più povere del mondo sono ricche di luce solare, potrebbero fare buon uso di una tecnologia che si basa sull’idrogeno verde. La produzione microbica fa inorridire alcuni di coloro che chiedono la sovranità e la giustizia alimentare. Ma potrebbe soddisfare entrambe queste esigenze in modo più efficace rispetto all’agricoltura. Queste tecnologie ci offrono, per la prima volta dal neolitico, la possibilità di modificare non solo il nostro sistema alimentare, ma il nostro rapporto con gli esseri viventi. Grandi distese di terra possono essere liberate sia dall’agricoltura intensiva sia da quella estensiva. L’era dell’estinzione potrebbe diventare un’era di rigenerazione. Certo, avremmo ancora bisogno di produrre cereali, tuberi, frutta e verdura. Quindi come possiamo farlo in modo sicuro e produttivo? La risposta potrebbe trovarsi nella nostra nuova comprensione del suolo.
In una fattoria nel sud dell’Oxfordshire, le tecniche sviluppate da un agricoltore di nome Iain Tolhurst – detto Tolly – sembrano aver anticipato le recenti scoperte degli agronomi. Tolly è un uomo alto e robusto di quasi settant’anni, con la pelle segnata dal tempo, la mascella larga e pesante, lunghi capelli biondi, un orecchino d’oro e le mani sporche di terra e olio. Ha cominciato a coltivare senza alcuna formazione specifica, senza terra né mezzi per comprarla. Dopo una serie di disavventure, 34 anni fa è riuscito ad affittare sette ettari di terra molto povera a un prezzo basso. “Nessun coltivatore convenzionale prenderebbe in considerazione questo terreno”, mi ha detto. “Per il 40 per cento è fatto di pietre. Non è nemmeno classificato come coltivabile: un agronomo direbbe che è buono solo per l’erba o gli alberi. Ma quest’anno abbiamo raccolto 120 tonnellate di frutta e verdura”.
Sorprendentemente, in questi 34 anni Tolly ha coltivato questo terreno senza pesticidi, erbicidi, minerali, letame animale o qualsiasi altro tipo di fertilizzante. Ha inventato un modo di coltivare che definisce “biologico senza bestiame”. Significa che non usa prodotti zootecnici in nessuna fase del ciclo agricolo, e nemmeno prodotti artificiali.
Finché non ha dimostrato la validità del suo metodo, si pensava che questo equivalesse a prosciugare le risorse della terra. Le verdure in particolare sono considerate colture esigenti, che richiedono molti nutrienti per crescere. Eppure Tolly, pur non aggiungendone nessuno, ha aumentato la sua resa fino a raggiungere il livello minimo di quello che le colture intensive ottengono con i fertilizzanti artificiali su un buon terreno: un’impresa considerata da molti impossibile. Sorprendentemente, la fertilità del suo suolo è costantemente aumentata.
Una nuvola azzurra
La prima volta che sono andato a trovarlo, a giugno, sono rimasto colpito dalla vasta gamma e dalla buona salute delle colture di Tolly. Un appezzamento era una nuvola azzurra di piante di cipolla, un altro un mosaico di toni di verde: giovani piante di cavolfiore e diversi tipi di cavoli verdi e neri. C’erano file di bietole con steli dorati, verdi, bianchi e rossi. I fagioli avevano cominciato a germogliare da fitte colonne di fiori. Le sue patate erano in piena fioritura, gli stami come aculei gialli. Le zucchine sbucavano bruscamente dai loro fiori a trombetta. C’erano carote, pomodori, peperoni, fagioli di ogni tipo, erbe, pastinache, sedani rapa, cetrioli, lattughe. Coltiva cento varietà di verdure, che vende direttamente o consegna a domicilio.
A separare le colture c’erano spazi non coltivati, in cui gli scienziati che hanno studiato la fattoria hanno trovato 75 specie di fiori selvatici. Questi spazi sono una componente essenziale del suo sistema, perché ospitano i predatori che controllano i parassiti delle colture. Sebbene non usi pesticidi, nessuna delle piante che ho visto mostrava segni di danni significativi provocati dagli insetti: le foglie erano larghe e scure, senza buchi o macchie. Quasi da solo, per tentativi ed errori, Tolly ha sviluppato un modello di orticoltura nuovo e rivoluzionario. All’inizio sembra magia. In realtà è il risultato di molti anni di esperimenti meticolosi.
Due delle sue innovazioni sembrano essere cruciali. La prima, come dice lui, è “rendere il sistema a tenuta stagna”: impedire alla pioggia di erodere il terreno, portando via i nutrienti. Questo significa garantire che la terra non sia quasi mai lasciata completamente nuda. Sotto i suoi ortaggi cresce uno strato di concime verde, di piante che ricoprono il terreno. Sotto le foglie delle sue zucche ho visto migliaia di minuscole piantine: le “erbacce” che semina deliberatamente. Quando le verdure sono raccolte, queste piante riempiono il vuoto e diventano presto una distesa di colori: fiori di cicoria azzurri, trifoglio scarlatto, meliloto giallo, facelia color malva, lupinella rosa.
“Sotto queste piante ce ne sono altre”, mi ha detto Tolly . “Non appena tagliamo quelle più grandi, le altre fioriscono e le api impazziscono”. Alcune delle piante mettono radici profonde che estraggono sostanze nutritive dal sottosuolo. Ogni tanto Tolly passa il tosaerba, tritandole in una paglia grossolana. I lombrichi la trascinano giù e la incorporano nel terreno. “L’idea è lasciare che le piante fissino almeno altrettanto carbonio e minerali di quanti ne togliamo”. Secondo Tolly questo metodo “lega i nutrienti, fissa l’azoto, aggiunge carbonio e aumenta la diversità del suolo. Più specie vegetali semini, più batteri e funghi stimoli. Ogni pianta ha le sue associazioni. Le radici sono il collante che costruisce e tiene insieme la biologia del suolo”.
L’altra innovazione importante è stata spargere ogni anno sulle piante tritate un millimetro di legno tritato e compostato, prodotto dai suoi alberi o da un potatore locale. Questo piccolo accorgimento sembra fare una grande differenza. Nei cinque anni da quando ha cominciato ad aggiungerlo, la resa è quasi raddoppiata. “Non è fertilizzante, è uno stimolante per i microbi. Il carbonio del legno favorisce la crescita dei batteri e dei funghi che ridanno vita al terreno”. Tolly è convinto di aggiungere abbastanza carbonio per aiutare i microbi ad arricchire il terreno, ma non così tanto da imprigionare l’azoto, che è ciò che succede quando gli si dà più del necessario.
Quello che Tolly sembra fare è rafforzare e diversificare i rapporti all’interno della rizosfera, l’intestino esterno della pianta. Mantenendo le radici nel terreno, aumentando il numero di specie vegetali e aggiungendo la giusta quantità di carbonio, sembra aver incoraggiato i batteri a costruire le loro catacombe nel suo terreno sassoso, migliorando la struttura del suolo e aiutando le sue piante a crescere.
Un’altra rivoluzione verde
Il successo di Tolly ci costringe a riflettere su cosa significa fertilità. Non è solo la quantità di sostanze nutritive contenute nel terreno. Dipende anche dal fatto che siano disponibili al momento giusto e conservate in modo sicuro quando le piante non ne hanno bisogno. In un terreno sano, le colture possono regolare i loro rapporti con i batteri della rizosfera, garantendo che i nutrienti siano sbloccati solo quando sono necessari. In altre parole, la fertilità è una delle proprietà di un ecosistema funzionante. L’agronomia ha dedicato molta attenzione alla chimica del suolo. Ma la biologia sembra sempre più importante man mano che la conosciamo meglio.
Il sistema di Tolly può essere replicato? Finora i risultati non sono chiari. Ma se riusciamo a scoprire come migliorare i rapporti delle piante coltivate con i batteri e i funghi in una vasta gamma di terreni e climi, forse potremmo aumentarne la resa riducendo gli interventi. Lo studio dell’ecologia del suolo potrebbe innescare una rivoluzione ancora più verde.
Potremmo combinare questo approccio con un’altra serie di innovazioni sviluppate dal Land institute di Salina, negli Stati Uniti, che sta selezionando colture di cereali perenni per sostituire le piante annuali da cui otteniamo la maggior parte del nostro cibo. Le annuali sono piante che muoiono dopo una stagione. Le perenni sopravvivono da un anno all’altro.
Le grandi aree dominate dalle piante annuali sono rare in natura. Tendono a colonizzare il terreno dopo una catastrofe: un incendio, un’alluvione, una frana o un’eruzione vulcanica che mette a nudo la roccia o il suolo. Per coltivare le annuali dobbiamo mantenere la terra in uno stato catastrofico. Se coltivassimo cereali perenni, saremmo meno costretti a distruggere i sistemi viventi per produrre il nostro cibo.
Da quarant’anni il Land institute setaccia il mondo alla ricerca di specie perenni capaci di sostituire le annuali che coltiviamo. Lavorando con Fengyi Hu e la sua squadra dell’università dello Yunnan, in Cina, ha sviluppato un riso perenne con una resa che uguaglia, e in alcuni casi supera, quella delle moderne specie annuali. Gli agricoltori fanno la fila per averne i semi. Mentre la coltivazione annuale del riso può causare un’erosione devastante, le lunghe radici delle varietà perenni legano e proteggono il suolo. Alcune colture di riso perenni hanno prodotto sei raccolti senza bisogno di essere ripiantate.
Le piante perenni si concimano da sole. Più a lungo crescono, più forti sono i loro rapporti con i microbi che fissano l’azoto dell’aria e rilasciano altri minerali. Secondo una stima i sistemi perenni trattengono cinque volte più acqua piovana delle colture annuali.
Il Land institute sta sviluppando varietà perenni di grano, semi oleosi e altre granaglie. Le radici profonde e la struttura robusta delle piante perenni potrebbero aiutarle a resistere al caos climatico. I girasoli perenni che l’istituto sta selezionando hanno attraversato due gravi siccità, una delle quali ha completamente distrutto i girasoli annuali coltivati accanto a loro.
Anche se non esiste una soluzione universale, credo che alcuni degli elementi di un nuovo sistema alimentare globale – che sia più resiliente, meglio distribuito, più diversificato e più sostenibile – stiano emergendo. Se succederà, quel sistema sarà stato costruito sulla base della nostra nuova conoscenza del più trascurato dei principali ecosistemi: il suolo. E potrebbe risolvere il più grande di tutti i problemi: come nutrirci senza distruggere i sistemi viventi da cui dipendiamo. Il futuro è sottoterra. ◆bt
George Monbiot è un giornalista e ambientalista britannico. Il suo prossimo libro_, Il futuro è sottoterra_, uscirà l’11 ottobre per Mondadori. Il 1 ottobre Monbiot interverrà al festival di Internazionale a Ferrara.
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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati