Ho seguito quasi tutti gli speciali su Genova 2001. Un po’ per narcisismo. Mi cerco nelle immagini dei cortei, e non trovandomi mi chiedo se ci sono andato veramente. Poi per non mancare all’appello di ritrovarsi vent’anni dopo a riflettere sull’attualità di quelle idee e delle nostre ragioni. Le reti, dalla Rai a Sky, hanno tentato approcci diversi, chi privilegiando la cronaca, chi le trame giudiziarie, chi il racconto dei testimoni, ricondotti, con addosso i segni degli anni trascorsi, sui luoghi del disastro. Ma la tv si è rivelata lo strumento peggiore a cui affidare questa scrittura così delicata. Le immagini dell’epoca divorano tutto. Pochi fotogrammi convulsi, caotici e appannati dai fumogeni, cannibalizzano ogni distacco, ogni serena riflessione. Basta la fotografia un po’ desaturata dell’home video per trasformare anche il gioioso corteo dei migranti musicato da Manu Chao nel prologo della mattanza. Il racconto tv, con le riprese aeree, i campi lunghi di via Tolemaide, le migliaia di ragazzi in ordine sparso come sorci nella pioggia, descrive l’immagine della grande trappola in cui cademmo, l’architettura ostile di una città di mare. Nulla può opporsi al riflesso pavloviano che scatta alla visione di quelle scene: maledire gli agenti e cercare un punto di fuga, anche in salotto. La tv, per quanto ben fatta, è vittima delle immagini. I podcast risultano più efficaci. Genova, vent’anni dopo, va rivista a occhi chiusi. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati