Negli Stati Uniti, dove mi trovo ora, colpisce l’assenza totale di pause tra un programma tv e l’altro, tra un segmento di uno show e la pubblicità. Quei secondi di “nero” che segnano un confine tra il contenuto editoriale e quello commerciale non sono contemplati. Non essendo padrone della lingua, mi chiedo perché un dibattito su Trump deragli improvvisamente su un tizio che elogia una marca di psicofarmaci. Lo stordimento è accentuato dalla stessa qualità della fotografia e del sonoro, di altissimo livello. Ho chiesto il motivo di questa continuità a una docente di scrittura tv a New York. La risposta è semplice: gli spettatori non devono distrarsi. La pubblicità deve dichiararsi il meno possibile, ma amalgamarsi al flusso dell’intrattenimento. Se da noi è l’occasione per una pausa, qui è un ponte di pari dignità, come il bridge delle canzoni pop, dopo il secondo ritornello. “La regola è quella degli otto secondi”, mi dicono, ovvero la durata media dell’attenzione del pubblico adulto, e lo schermo buio, anche per un attimo, risulterebbe fatale. Conversando, siamo giunti a una definizione non so quanto originale: la tv neurologica. A primeggiare non è più il racconto ma l’incidenza sul sistema nervoso. Dinamiche che qui studiano da anni, dagli effetti quasi ipnotici. Con il risultato di rivelare al pubblico, nel continuum fra Trump e il disagio psichico, alcune (chissà quanto involontarie) verità. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati