Sulla scia delle Olimpiadi appena trascorse, dove tanto si è discusso di corpi e testosterone, mi è tornato in mente l’amaro destino di Jesse Owens, che per guadagnarsi da vivere dopo aver dominato i giochi del 1936 a Berlino e indispettito in un sol colpo Hitler e Roosevelt, si mise a competere con i cavalli da corsa. Il nuotatore Michael Phelps, imbattuto, ha cercato tra gli squali un degno avversario. Quella di ricorrere agli animali per misurare i superpoteri degli atleti è una storia antica che la tv statunitense provò a mettere in scena nel 2003 con uno dei programmi più criticati di sempre, a metà strada tra l’agonismo e il circo: Man vs. beast (Fox). C’erano il ginnasta e l’orango in una prova di resistenza agli anelli, il velocista contro una giraffa, la squadra di nani contro un elefante, chiamati a trainare due Boeing, e un giapponese, distintosi nel celebre torneo di Coney Island tra mangiatori di hot dog, in gara contro un orso bruno già noto al pubblico per qualche comparsata cinematografica. La bestia divorò i salsicciotti in pochi secondi, lasciando l’avversario con il piatto ancora pieno e lo sguardo attonito. Come era prevedibile, gli animalisti insorsero, mentre il pubblicò si affezionò a un format che ebbe quantomeno la schiettezza di riconoscere che non c’è competizione, non solo sportiva, che non preveda al suo centro il gusto per l’umiliazione. Degli umani, delle bestie, di tutto. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati