L’esperto critico britannico Rob Young di recente ha sollevato molte perplessità sulla deriva televisiva del suo paese. Sostiene che la tv di sua maestà abbia perso la weirdness, la bizzarria di programmi che, con umorismo e invenzioni anche radicali, spinsero in avanti l’immaginario di una generazione. Dagli anni sessanta agli anni ottanta – spiega Young – la tv fu in grado di sorprendere perché autori e registi avevano vissuto la guerra e lo smantellamento di un impero. La distruzione li aveva esposti a una minaccia alla loro esistenza tale da fargli sentire la necessità di carburare idee perfino bizzarre. Oggi, dice Young, la tv si è intorpidita. Schiacciata dalla concorrenza delle piattaforme, ha accantonato ogni spinta creativa e perso il coraggio di osare. Non so quale sia nel Regno Unito l’unità di misura con cui si valutano le scelte autorali. In Italia va molto forte, e non da oggi, la sindrome della “zia”. Molti conduttori e dirigenti, per definire la qualità di un’idea, si chiedono: “Piacerebbe a mia zia?”. Evoluzione pensionata della casalinga di Voghera, la “zia” è una figura mitologica, confinata nel suo tinello fatato a divorare ore di tv, in attesa della chiamata del televisivo di turno per un consulto su ciò che è bene e ciò che è male. Una severa e pittoresca procuratrice della messa in onda. Così la immagino. Dallo stile un po’ british, conservatrice nell’animo, inconsapevole alibi di un nipote pigro e smarrito. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati