Il comico Louis C.K. ha criticato la gestione dell’applauso da parte del pubblico italiano. Non è il primo artista a stigmatizzare la nostra tendenza a eccedere nei battimani e a interrompere il racconto con un’euforia da gran finale. Negli Stati Uniti, dove la claque è un’arte parallela a quella che si manifesta sul palco, il pubblico è istruito a comporre una trama sonora in crescendo, che si esprime nell’applauso solo alla fine. Da noi, invece, l’atteggiamento plateale ha un che di gregario che ci porta a punteggiare ogni virgola dell’esibizione, come se altre reazioni, meno strepitanti, fossero inadeguate o addirittura ingenerose. Sergio Tofano, uomo di teatro, nel 1939 dedicò alla questione un testo per il Corriere della Sera dal titolo La meccanica dell’applauso, le cui leggi vanno oltre la sincera espressione di gradimento, innescate piuttosto da conformismo, aspettative o semplice distrazione. Nei talk show, il pubblico acclama con la stessa intensità tanto la dichiarazione progressista quanto quella reazionaria, intervenendo come sentinella grammaticale a ogni punto fermo. Il politico, consapevole, si esprime con battute brevi, spesso insignificanti, ma con la opportuna assertività. Il risultato è un ipnotico sciabordio palmare, una livella acustica che non toglie né aggiunge nulla. Dovremmo forse perfezionare l’arte italiana dell’applauso o, per dirla con maggiore schiettezza, l’arte dell’inganno del compiacimento. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati