Dieci anni di lavoro per raccontare la storia di Vittorio Camardese, uno dei più inaspettati chitarristi italiani. Come si fa a entrare nella vita di un uomo che ha scelto di stare al margine, anche se aveva inventato tecniche destinate a influenzare il jazz che passava dal Folkstudio di Roma negli anni sessanta? La regista Vania Cauzillo, autrice di Il mondo è troppo per me (2022, sceneggiato con Laura Grimaldi), deve fare i conti con un repertorio frammentato fatto di fotografie, lettere e filmati della Rai Teche, oltre che sulle memorie che Camardese ha inciso nella vita degli amici e degli eredi spirituali e non. E lo fa bene: integrando la sua figura con le illustrazioni di Elisa Lipizzi e lasciando affiorare la storia del musicista lucano che è anche radiologo, e frequenta i teatrini e garage dove le gang fanno il jazz.
Tra i testimoni appare un indispensabile Marcello Rosa, il trombonista morto di recente, che fa capire come ascoltare Camardese equivalesse a un momento formativo filosofico oltre che musicale, e il ricordo che ne aveva quel gentiluomo di Antonio Infantino. Camardese ha incarnato lo spazio meraviglioso tra il talento che non ha nessuna destinazione e il volere qualcosa di diverso. Autodidatta, aveva imparato il tapping dai barbieri di Potenza che nelle pause dal lavoro tiravano fuori gli strumenti. Suonava come un matto e osservando da vicino musicisti come Chet Baker forse aveva capito che i jazzisti erano stupidi, perché credevano che l’ossessione per la tecnica fosse qualcosa che superava l’uomo, e per lui era troppo. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1599 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati