Il 6 dicembre il presidente statunitense Joe Biden ha rivolto un appello accorato ai parlamentari per convincerli ad approvare lo stanziamento di nuovi aiuti militari all’Ucraina: “Non possiamo più aspettare. Il congresso deve sbloccare i fondi prima della pausa per le feste. È semplice, non c’è altro da dire”. In realtà non c’è niente di semplice in questa richiesta. Negli ultimi mesi è cresciuto il malcontento dei repubblicani per il sostegno militare a Kiev. Biden era convinto di poterli convincere abbinando la richiesta di finanziamenti per l’Ucraina a quella di nuovi aiuti per Israele nella guerra contro Hamas. Subito dopo il 7 ottobre, quando l’opinione pubblica statunitense era sconvolta dalla brutalità degli attacchi contro Israele, sembrava che la strategia potesse funzionare.

Ma i repubblicani, che hanno la maggioranza alla camera, avevano altre idee. Davanti alla richiesta di stanziare fondi per entrambi gli alleati, hanno alzato la posta esigendo che fosse ridotto il budget dell’Internal revenue service, l’agenzia delle entrate statunitense. Quando il tentativo è fallito, i repubblicani hanno chiesto un inasprimento delle leggi sull’immigrazione in cambio del via libera agli aiuti militari. Il risultato, finora, è stato lo stallo.

L’aspetto positivo dell’intera vicenda è che potrebbe portare a un dibattito di cui c’è bisogno. Sembra ragionevole che gli Stati Uniti continuino a sostenere l’Ucraina contro l’aggressione russa. Un altro motivo per opporsi all’espansionismo di Mosca è arrivato in questi giorni dal Sudamerica, dove il Venezuela minaccia di strappare alla Guyana una vasta area ricca di petrolio, anche se un tribunale internazionale ha emesso una sentenza favorevole ai guyanesi. Il comportamento di Caracas ci ricorda che lo stile di Putin non è una minaccia solo per l’Europa ma anche per la pace in tutto il mondo.

Il problema è che, dopo 76,95 miliardi di dollari di aiuti concessi a Kiev, gli statunitensi hanno il diritto di chiedere come saranno spesi i prossimi stanziamenti, cosa permetteranno di ottenere e quale sarà il costo finale. Durante una guerra è difficile pretendere una totale trasparenza operativa e strategica, perché rivelare i propri obiettivi può aiutare l’avversario. Ma resta il fatto che finora il sostegno di Biden all’Ucraina non è stato accompagnato da nessun confronto sui criteri e sugli obiettivi. Ora è il momento di farlo.

Sconfitta strategica

La richiesta di ulteriori aiuti militari a Israele alimenta dubbi ancora più profondi. Dal 1948 al marzo del 2023 Washington ha finanziato lo stato ebraico con centinaia di miliardi di dollari, in gran parte destinati al rafforzamento della sicurezza. Oggi Israele può contare su uno degli eserciti più potenti e moderni del mondo. È per questo che i nuovi aiuti, promessi da Biden subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, avrebbero dovuto sollevare più di una perplessità. E invece non c’è stato nessuno sforzo di spiegare pubblicamente perché un paese così forte dal punto di vista militare avesse bisogno di tanti soldi in più per combattere un’organizzazione di miliziani. Washington ha schierato nella regione mediorientale anche le sue risorse militari (comprese alcune portaerei) per dissuadere l’Iran e qualsiasi altro paese dall’idea di attaccare Israele. Quindi a cosa servirebbero questi soldi in più?

Aumentare la capacità di Israele di “radere al suolo” la Striscia di Gaza, come hanno detto alcuni funzionari israeliani, non può essere una risposta ammissibile. Le operazioni israeliane hanno già superato ogni limite di ciò che è consentito in guerra, come confermano le prese di posizione delle agenzie umanitarie internazionali. Di recente Lloyd Austin, il segretario alla difesa statunitense, ha detto che se Israele continuerà ad attaccare Gaza come ha fatto finora rischia una “sconfitta strategica” mascherata da vittoria. Dopo aver ucciso migliaia di palestinesi (soprattutto donne e bambini), Tel Aviv potrebbe ritrovarsi a gestire le macerie di Gaza senza aver nemmeno eliminato la minaccia di Hamas, restando quindi bersaglio dell’odio e della sete di vendetta di generazioni di palestinesi.

Nel Partito democratico statunitense emergono, timidamente e in ritardo, le prime voci che chiedono un’inversione di rotta. Bernie Sanders e Chris Murphy, senatori del Vermont e del Connecticut, spingono per un cambiamento di strategia che preveda la fine degli aiuti incondizionati a Israele.

Da sapere
Alleato generoso
Aiuti degli Stati Uniti ad altri paesi tra il 1946 e il 2022, miliardi di dollari (Fonte: Foreignassistance.gov)

Sforzo diplomatico

Non voglio sostenere che Washington debba tagliare del tutto i fondi a Israele e penso che lo stato ebraico abbia il diritto di difendersi. Sono disgustato da Hamas e credo che le sue tattiche sanguinarie contro i civili israeliani, compresi gli stupri e le presunte mutilazioni sessuali, siano la causa diretta sia della sete di sangue che domina Israele sia dell’ondata di morte provocata dalle bombe, dai missili e dall’artiglieria israeliana a Gaza.

Ma la guerra in Medio Oriente offre agli Stati Uniti un’occasione concreta per rivalutare attentamente la natura del sostegno militare dato a Israele e anche le proprie responsabilità nel dramma in corso nella Striscia di Gaza, soprattutto se le tattiche dello stato ebraico saranno considerate universalmente dei crimini di guerra. In generale, è il momento giusto anche per ripensare radicalmente il modo in cui Washington usa il suo potere nel mondo. Troppo spesso gestisce le crisi internazionali ricorrendo solo a due strumenti: le armi e le sanzioni. Regala o vende armi ai suoi alleati su una scala così vasta da risultare quasi inimmaginabile per l’opinione pubblica; e impone sanzioni ai paesi che considera ostili, dalle restrizioni sull’accesso al sistema finanziario internazionale ai divieti sugli spostamenti.

Queste risposte sono diventate così automatiche da aver atrofizzato qualsiasi altra soluzione alle crisi, a cominciare dalla diplomazia tradizionale. Gli Stati Uniti devono tornare a impegnarsi per favorire la pace tra paesi nemici. Quale contesto migliore per farlo del conflitto israelo-palestinese? Le dichiarazioni sulla necessità di una soluzione che preveda due stati si sono susseguite per anni come promesse vuote, nella più totale assenza di volontà e impegno diplomatico per superare davvero il problema.

Biden e altri presidenti americani si sono comportati come se rifornire Israele di armi e offrire garanzie di sicurezza avrebbe assicurato a Washington l’influenza necessaria per spingere gli israeliani a trovare un accordo con i palestinesi. Oggi le armi continuano a essere consegnate, ma lo sforzo diplomatico indispensabile per arrivare a una soluzione del conflitto non è mai stato messo in campo. ◆ as

Howard French è un giornalista e saggista statunitense. Ha lavorato per il New York Times come corrispondente da Cina, Giappone, America Centrale e Caraibi.

Ultime notizie
Tensione con Tel Aviv

◆ Il 12 dicembre 2023 il presidente statunitense Joe Biden ha criticato il governo israeliano per come sta portando avanti la guerra nella Striscia di Gaza. “Biden ha detto che i leader israeliani stanno perdendo il sostegno della comunità internazionale a causa dei bombardamenti indiscriminati”, scrive il New York Times. Ha anche manifestato le sue divergenze con i politici israeliani a proposito di una possibile soluzione del conflitto. Ha descritto il governo di Benjamin Netanyahu come “il più conservatore della storia di Israele”, che non vuole “niente di lontanamente vicino a una soluzione a due stati”. Biden ha consigliato al primo ministro israeliano di cambiare la composizione del suo esecutivo, che comprende partiti di estrema destra. Da quando è cominciata l’offensiva di Tel Aviv, gli Stati Uniti non avevano mai preso una posizione così netta nei confronti dell’alleato. Netanyahu ha risposto duramente: “Dopo il grande sacrificio dei nostri civili e dei nostri soldati, non permetterò l’ingresso a Gaza di chi educa al terrorismo e lo finanzia”. E ha aggiunto che “Gaza non sarà né Hamastan né Fatahstan”, storpiando il nome di Al Fatah, il partito di Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese a cui gli occidentali vorrebbero affidare un ruolo chiave dopo il conflitto. Il 9 dicembre gli Stati Uniti erano stati criticati per aver messo il veto su una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva il cessate il fuoco a Gaza.


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Questo articolo è uscito sul numero 1542 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati