In questi giorni ventisette anni fa, l’attivista di estrema destra Yigal Amir uccideva il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Il suo obiettivo era affossare il processo di pace in corso con i palestinesi. Amir era stato istigato dalle forze di destra vicine a Benjamin Netanyahu, che allora guidava il partito conservatore Likud e che due anni dopo sarebbe diventato premier d’Israele per la prima volta, mantenendo l’incarico più a lungo di qualunque altro leader politico nella storia del paese.
Da allora il potere dell’estrema destra in Israele ha continuato a crescere a spese della sinistra, e la sua affermazione è evidente guardando al distacco che Benjamin Netanyahu e la sua coalizione hanno inflitto agli avversari alle elezioni del 1 novembre.
Il pugno di ferro
Netanyahu, a cui va il merito di aver unito le file della destra, ha ereditato la tendenza all’estremismo dalla sua famiglia. Il padre era lo storico Benzion Netanyahu, che dedicò la vita alla creazione di uno stato ebraico “forte”, convinto che l’uso della forza fosse l’unico mezzo per fiaccare la resistenza degli arabi. Una strategia che il celebre leader sionista Zeev Jabotinsky (1880-1940) aveva chiamato “muro di ferro”. A partire da qui Netanyahu ha sviluppato la sua idea del “triangolo di ferro”, ovvero l’integrazione del potere militare, economico e politico. La chiave della stabilità e della pace per lo stato ebraico, secondo Netanyahu, sta nell’uso ponderato del pugno di ferro. Così è riuscito a imporre la normalizzazione dei rapporti con alcuni paesi arabi, mettendo fine alla ghettizzazione e al loro ostracismo politico.
Alle elezioni del 1 novembre il Likud ha ottenuto 32 seggi e la coalizione di estrema destra Sionismo religioso, guidata da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, è arrivata a quattordici. Altri undici seggi sono andati al movimento Shas (che rappresenta principalmente gli ultraortodossi discendenti dagli ebrei della penisola iberica e dei paesi arabi) e sette al partito Giudaismo unito della Torah (vicino agli ultraortodossi discendenti dagli ebrei dell’Europa centrale e orientale). Questo significa che l’estrema destra ha 64 seggi in parlamento: una comoda maggioranza. I risultati riflettono la tendenza della società israeliana verso la destra, anche radicale, e l’aumento di tutti gli estremismi, dal nazionalismo al conservatorismo all’ortodossia religiosa. Sono tutti segnali dell’affermazione dell’idea di una superiorità dello stato ebraico a scapito dei valori della laicità e della democrazia.
Ancora di salvezza
Il prossimo governo si annuncia, quindi, come il più estremista nella storia d’Israele. Itamar Ben Gvir, leader del partito Potere ebraico (in coalizione con il Partito sionista religioso di Bezalel Smotrich), aspira al ministero della pubblica sicurezza. È noto per le sue idee razziste e radicali, è coinvolto negli assalti alla moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme, ed è favorevole all’annessione dei territori della Cisgiordania a Israele. La popolarità che ha conquistato tra i religiosi e le energie che ha speso per rafforzare la destra israeliana giocano a suo favore. Netanyahu potrebbe convincerlo a rinunciare al ministero solo per scongiurare l’isolamento internazionale e il malcontento degli Stati Uniti. Smotrich, da parte sua, vuole il ministero della difesa.
Ma bisogna tenere conto del fatto che la corrente ultraortodossa e gli estremisti religiosi sono l’unica ancora di salvezza a cui Netanyahu può aggrapparsi per sfuggire al processo in cui è imputato per corruzione. Per questo è costretto ad assecondare le loro richieste, che avranno conseguenze terribilmente negative sulla questione palestinese e sulle relazioni con gli arabi.
La maggior parte dei politici di questi partiti non crede nella pace, nei negoziati né in qualsiasi soluzione pacifica con i palestinesi. Inoltre ritiene che sia necessario mettere in atto gli accordi di Abramo (la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi arabi) secondo la visione sionista e dividere la moschea di Al Aqsa, limitando l’accesso dei palestinesi a uno spazio circoscritto e a certi periodi. Decisioni simili provocheranno altre proteste intorno alla Spianata delle moschee di Gerusalemme.
Nei loro programmi elettorali Ben Gvir e Smotrich si sono concentrati sulla necessità di reintrodurre la politica del pugno di ferro contro i palestinesi. Naturalmente con il consolidamento della loro corrente politica aumenteranno anche le azioni degli estremisti religiosi ebrei nella moschea di Al Aqsa, tra l’approvazione e il silenzio complice dei servizi di sicurezza del governo, e cresceranno i tentativi dei coloni di prendere d’assalto la zona.
Le forze di sicurezza saranno ancora più brutali nel far fronte alla resistenza palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme, ed è prevedibile un aumento di arresti e incursioni. In campagna elettorale Ben Gvir e Smotrich hanno sfruttato la tensione in Cisgiordania, dove è in corso una nuova ondata di violenze, per spingere i coloni e l’estrema destra a sostenerli. È probabile che la pressione israeliana sull’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) s’intensificherà, così come le richieste di rafforzare il coordinamento sulla sicurezza e di affrontare la resistenza a Gerusalemme e in Cisgiordania. Lo stesso succederà con le domande di riconoscimento delle colonie ebraiche e la loro espansione, ampliando così la distanza tra l’Anp e il popolo palestinese.
Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, sembra improbabile che Netanyahu provocherà la resistenza palestinese causando scontri non calcolati, almeno non ora che vuole dedicarsi al controllo sulla Cisgiordania.
Sul fronte arabo, Netanyahu continuerà a spingere sulla politica di normalizzazione che lo ha reso celebre e con cui ha ottenuto risultati politici senza precedenti, accelerando il rafforzamento e la divulgazione della religione ebraica. Ai regimi arabi sarà richiesto di favorire il processo di normalizzazione e di fare più concessioni. Netanyahu ha trovato una formula di accordo perfetta che punta sui comuni timori arabo-israeliani nei confronti della minaccia iraniana, e che ha portato all’ulteriore emarginazione della questione palestinese.
Il divario tra i governanti e i popoli potrebbe acuirsi. Le élite culturali, politiche e religiose delle società arabe che rifiutano la normalizzazione potrebbero essere prese di mira e limitate nelle loro attività.
Dio conosce i suoi disegni, ma la maggior parte degli esseri umani no. ◆ amb
Ihsan al Faqih è una scrittrice giordana.
◆ Cosa pensavate che sarebbe successo? Cosa pensava la sinistra sionista, sprofondata nel coma dopo gli accordi di Oslo? Che era possibile tornare al potere? Senza un’alternativa né una leadership? Solo sulla base dell’odio per Netanyahu? A parte quello non ha niente da offrire.
Nessuno dovrebbe essere sorpreso da quello che è successo. Non poteva essere altrimenti. Il processo è cominciato con l’occupazione e ha raggiunto l’apice con un governo razzista. Cinquant’anni di incitamento contro i palestinesi e tattiche del terrore non possono culminare in un governo di pace. Cinquant’anni di sostegno all’occupazione da parte della sinistra sionista e della destra non potevano fare altro che trasformare Itamar Ben Gvir in un eroe nazionale.
D’ora in poi il sionismo sarà promosso al livello di aperto razzismo. Per anni abbiamo sentito che gli israeliani sono il popolo eletto, che dopo l’olocausto tutto è permesso, che gli arabi vogliono gettarci in mare; abbiamo difeso il nostro diritto biblico alla terra e ripetuto che il mondo è contro di noi e che chiunque ci critichi è un antisemita. Cosa credevamo che sarebbe venuto da tutto questo? Ben Gvir avrebbe potuto sfondare molto tempo fa. È quello che succede quando le grida “morte agli arabi!” non sono contrastate neppure da un singolo “libertà per gli arabi!”. Così comincia, così finisce.
Gideon Levy, Haaretz
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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati