Dieci anni fa un peschereccio malandato che trasportava un numero eccessivo di persone si capovolse al largo delle coste italiane, causando la morte di 368 migranti. Dopo quella tragedia l’Unione europea fornì aiuti finanziari all’Italia per decine di milioni di euro, promettendo di rafforzare le operazioni di salvataggio e di elaborare una politica migratoria e dell’asilo più efficace. “Faremo tutto il possibile, con i mezzi a nostra disposizione, per cambiare la situazione”, disse l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso.
Ma l’orribile naufragio del 26 febbraio scorso, a un poco più di un centinaio di metri dalle coste della Calabria, ha reso dolorosamente chiaro che la situazione non è cambiata. Semmai è stata l’ostilità agli immigrati a essersi diffusa e radicata nell’Unione.
I paesi che affacciano sul Mediterraneo non puntano più sulle operazioni di ricerca e soccorso. L’Italia parla di blocchi navali, mentre la Grecia ha espulso in segreto dei migranti su zattere di salvataggio a volte sovraccariche. I funzionari europei, che lo scorso fine settimana hanno espresso ancora una volta il loro dolore e hanno fatto promesse, hanno cercato di subappaltare il problema, con grande dispendio di denaro, scaricandolo su paesi dell’altra sponda del Mediterraneo con un passato preoccupante di violazioni dei diritti umani.
Nel frattempo i richiedenti asilo continuano ad arrivare. Nonostante le nuove e severe misure adottate dal governo italiano guidato da Giorgia Meloni, che deve la sua ascesa politica anche alla dura posizione presa contro i migranti, il numero di arrivi in Italia è tornato a salire ai livelli del 2017, con 14.437 sbarchi nei primi due mesi di quest’anno. Non è chiaro cosa abbia determinato questo aumento in un periodo dell’anno di solito relativamente tranquillo.
La tragedia del 26 febbraio, per la quale Meloni ha espresso “profondo dolore” e rabbia verso gli scafisti, non ha creato problemi politici alla presidente del consiglio. Al contrario, da tutto lo spettro politico sono arrivate richieste all’Europa di fare finalmente qualcosa per affrontare una sfida che potrebbe determinare il futuro del continente. “Probabilmente deve fare qualcosa di più”, ha dichiarato il ministro dell’interno italiano Matteo Piantedosi la sera del 26 febbraio, aggiungendo che “il passaggio dalle parole ai fatti è di fondamentale importanza”. Il giorno dopo Piantedosi ha incontrato il suo collega francese Gérald Darmanin a Parigi, per concordare un’azione comune, che prevede visite congiunte in Tunisia e rimpatri più facili dei migranti.
Meloni ha dichiarato di aver sollecitato l’Unione europea ad “agire in fretta”, aggiungendo che per “affrontare seriamente con umanità” la questione dei migranti è necessario “fermare le partenze”. Ma anche se chiedono all’Europa di affrontare il problema una volta per tutte, da anni i singoli paesi gestiscono la situazione ognuno per proprio conto, chiudendo le braccia che un tempo tenevano aperte.
La Grecia, che ha costruito una recinzione al confine con la Turchia e ha negato di aver respinto i migranti in mare, sta aumentando i pattugliamenti terrestri e marittimi in vista delle elezioni politiche di aprile “per proteggere il territorio europeo dai flussi illegali”, come ha detto il ministro dell’immigrazione greco Notis Mitarachi, aggiungendo che gli arrivi in Grecia sono diminuiti dell’80 per cento dal 2019. Il paese inoltre raddoppierà la lunghezza della recinzione lungo il confine turco, di quasi quaranta chilometri, con o senza i fondi europei.
Abusi terribili
Nel 2016 l’Unione europea ha accettato di versare miliardi di euro ad Ankara per accogliere i migranti che raggiungevano il suolo turco. L’anno dopo Bruxelles, e l’Italia autonomamente, hanno stretto accordi simili – anche se di minor portata – con la Libia, fornendo denaro, risorse e addestramento agli ufficiali della guardia costiera libica, e ai leader tribali, per impedire ai migranti di attraversare il Mediterraneo. Molte di queste persone hanno subìto abusi terribili nel paese nordafricano.
Alcuni sopravvissuti al naufragio del 26 febbraio scorso, partiti da Smirne in Turchia, hanno dichiarato che fin dall’inizio la loro destinazione era l’Italia. I sostenitori dei diritti dei migranti fanno notare che le frontiere chiuse in Grecia e in molti paesi dell’Europa orientale – dove l’Ungheria ha costruito un muro, mentre la Croazia e la Serbia hanno respinto violentemente gli arrivi – hanno reso il viaggio verso l’Italia l’opzione più praticabile per i migranti, anche se il tragitto è più lungo e spesso più pericoloso.
“Questa tragedia è il risultato finale di tutte le politiche di protezione dei confini”, dichiara Christina Psarra, direttrice dell’ong Medici senza frontiere in Grecia.
Meloni ha cercato di obbligare le navi delle ong a soccorrere i migranti e a tornare in un porto italiano dopo ogni missione, limitando il loro tempo in mare e il numero delle persone tratte in salvo. Ma la costa ionica, dove il 26 febbraio è affondato il peschereccio, non è pattugliata dalle navi umanitarie. Questo non significa che i migranti non sbarchino in quella zona. L’anno scorso 18mila dei 30.500 migranti che hanno percorso la pericolosa rotta dalla Turchia attraverso il mar Egeo sono sbarcati in Italia.
“Siamo dispiaciuti del fatto che questa nuova rotta dell’immigrazione sia stata poco raccontata nel corso degli anni”, ha dichiarato Roberto Occhiuto, il presidente della regione Calabria. Ha aggiunto di sperare che la tragedia porti a “una rinnovata presa di coscienza dell’Europa”.
Il quotidiano Il Mattino ha presentato la questione in maniera più concisa. “Dov’è l’Europa?” era il titolo di prima pagina del 27 febbraio. “L’Europa ha la possibilità di offrire un approccio umanitario, che significa rendere prioritarie le operazioni di ricerca e soccorso”, ha dichiarato Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. “Un’imbarcazione così sgangherata ha effettuato una lunga navigazione. Questo dimostra che dobbiamo rafforzare il sistema europeo di pattugliamento e di ricerca e salvataggio”. Marco Bertotto, di Medici senza frontiere in Italia, ha attribuito l’aumento delle morti all’indebolimento dei pattugliamenti. “Quando l’Italia e l’Unione europea avevano mezzi navali in mare, era maggiore anche la loro capacità di ricerca e soccorso, e diminuivano le probabilità di queste tragedie”.
Soluzioni temporanee
Le centinaia di vite perse nel naufragio a Lampedusa del 2013 avevano dato il via a un’ampia missione italiana di ricerca e soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Durò solo un anno. Fu presto sostituita da programmi meno ambiziosi che si sono man mano trasformati in controlli alle frontiere. Nel frattempo i politici populisti – tra cui Meloni, che in passato ha parlato di un pericolo di “sostituzione etnica” – hanno continuato a far leva sulla paura degli elettori italiani, diffondendo filmati di migranti che si comportavano in modo criminale o che arrivavano in massa.
Messaggi come questi hanno indebolito i politici progressisti che, perdendo consenso tra gli elettori, hanno accusato l’Europa di aver lasciato l’Italia da sola e di aver aperto la porta ai populisti di destra, nemici dell’Unione europea. Nel 2017 è stato un governo di centrosinistra a dare la prima stretta contro le navi delle ong che salvavano migranti in mare.
Alle elezioni del 2022 gli italiani hanno mostrato di preferire la linea più dura proposta dalla destra italiana. Ma quelli che criticano queste politiche hanno fatto notare la necessità di una risposta che vada oltre la chiusura delle frontiere.
“Chi pensa che il fenomeno migratorio si possa affrontare solo con la forza o con i blocchi navali dovrebbe inchinarsi davanti al corpo senza vita di questa bambina a cui è stato negato il futuro”, ha detto il sindaco di Catanzaro Nicola Fiorita. Si riferiva a una bambina di cui non si conosce il nome morta nel naufragio che, dice Fiorita, è diventata “un macigno sulla coscienza di tutta l’Europa”. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati