Una volta avviato, il desiderio di mandare a casa chi governa si rivela un meccanismo quasi impossibile da arrestare. Portato al potere da questo fenomeno di rifiuto dei partiti tradizionali, Emmanuel Macron pensava di non doverlo temere, avendo ottenuto la rielezione alla presidenza della repubblica quasi due mesi fa. È stata invece la sua maggioranza assoluta in parlamento a essere colpita in pieno dal desiderio di rinnovamento e di sconvolgimento degli schieramenti esistenti che sembra attanagliare gli elettori francesi. Dopo il secondo turno delle elezioni legislative, Macron si trova di fronte a una situazione tanto inedita quanto quella in cui si è trovato la prima volta che è entrato all’Eliseo, cinque anni fa.
Una punizione elettorale senza precedenti ha ridotto di quasi la metà il numero di deputati del suo partito, La République en marche (Lrm), e alla coalizione Ensemble!, di cui fa parte, mancano più di quaranta seggi per raggiungere la maggioranza assoluta, larghissima durante il primo mandato. Macron dovrà quindi adattarsi a una maggioranza relativa molto più debole, isolata e molto meno prevista di quella che François Mitterrand aveva consegnato al suo primo ministro Michel Rocard, dopo la rielezione nel 1988.
Questo terremoto politico ha provocato varie conseguenze per lo schieramento presidenziale: la mancata elezione di tre ministri e di molti dirigenti del partito che erano candidati determinano la necessità di rimodellare in profondità la fisionomia del macronismo. Ma c’è un numero che sancisce più di tutti gli altri la sconfitta del presidente.
Nella nuova assemblea nazionale siederanno 89 deputati del Rassemblement national (Rn, estrema destra): il triplo rispetto al massimo di seggi ottenuto dal Front national di Jean-Marie Le Pen nel 1986, e stavolta senza il sistema proporzionale. È con il sistema maggioritario, considerato molto sfavorevole per il suo partito, che Marine Le Pen ha ottenuto questo successo, alla fine di una campagna elettorale così dimessa che lei stessa è sembrata sorpresa dal risultato. Di fronte a quest’estrema destra si è rotto un meccanismo elettorale molto meno solido della volontà di rottamare la classe dirigente: il fronte repubblicano contro l’estrema destra. Era già stato indebolito da anni di distorsioni, ma è stato il partito di Macron ad assestargli il colpo di grazia tra il primo e il secondo turno: non ha dato ai suoi elettori una chiara indicazione di votare sempre contro i candidati dell’Rn, quando invece Macron deve la sua vittoria contro Le Pen alle presidenziali proprio al rispetto di questo patto tra partiti repubblicani. Il 19 giugno questo senso di tradimento si è tradotto nella scomparsa generalizzata dei riflessi repubblicani: secondo i sondaggi gli elettori di Lrm non si sono impegnati più di quelli della coalizione di sinistra per impedire l’elezione di un candidato dell’Rn votando per il suo avversario.
Valori traditi
Da parte della maggioranza uscente, quest’assenza di reciprocità non dimostra solo il cinismo di una manovra miope, che alla fine si è rivelata controproducente. Per Macron è soprattutto un importante passo indietro rispetto ai princìpi che aveva dichiarato di sostenere quando aveva fondato il suo partito e subito dopo la conquista del potere.
Il Rassemblement national potrà rivendicare il ruolo di secondo partito con più deputati all’assemblea nazionale
Allora la lotta contro l’Rn e le ragioni per cui veniva votato era in testa alle priorità di Macron, che non aveva mai cercato di equiparare il partito d’estrema destra – le cui radici xenofobe sono rimaste le stesse – e la protesta radicale rappresentata da La France insoumise, il partito di Jean-Luc Mélenchon, indipendentemente da quanto quest’ultimo possa essere criticabile.
Più recentemente, prima del secondo turno delle presidenziali, Macron aveva addirittura preso in prestito una parte del programma e degli slogan di Mélenchon, e aveva rivolto parole amichevoli ai suoi sostenitori. Poi però l’accordo tra le forze di sinistra ha portato alla creazione della Nuova unione popolare, ecologista e sociale (Nupes), cambiando i rapporti di forza, e ha spinto improvvisamente Macron a trattare lo schieramento formatosi intorno a Mélenchon come il più grande dei pericoli e come una proposta “estrema”. A rischio di far pensare che questo aggettivo serva soprattutto a screditare, a seconda delle circostanze, tutti quelli che ostacolano la sua permanenza al potere.
La sera del 19 giugno un uomo ha involontariamente rivelato tutti questi opportunismi. Clément Beaune, ministro delegato per l’Europa, ha strappato per un soffio un seggio di deputato nel collegio di Parigi dopo essere stato uno dei pochissimi del suo schieramento a chiedere un voto inequivocabile contro i candidati dell’Rn. Nell’ecatombe della maggioranza, la sua vittoria è suonata come un gradito richiamo alle origini del macronismo: una fedeltà alla costruzione europea, visceralmente legata al rifiuto del nazionalismo di estrema destra.
Tuttavia gli errori della coalizione presidenziale da soli non bastano a spiegare il risultato storico ottenuto dall’Rn e l’attrazione esercitata da questo partito su elettori che non sembrano pienamente consapevoli dei pericoli nascosti dietro l’atteggiamento rassicurante assunto recentemente da Marine Le Pen. La compiacenza di alcuni mezzi d’informazione e intellettuali verso l’altro candidato di estrema destra, Éric Zemmour, all’inizio della campagna elettorale ha certamente peggiorato le cose, facendo credere che questi deliri razzisti e xenofobi fossero compatibili con un’unione di tutte le anime della destra e dell’estrema destra. Mettere dei limiti a ciò che si può dire, e soprattutto fare, in una democrazia ormai serve solo a suscitare ironia. Votare per arginare l’estrema destra è diventato motivo di scherno, i riferimenti ai princìpi repubblicani suonano obsoleti.
Missione incompiuta
Alle elezioni legislative il partito di centrodestra Les républicains ha finito per pagare cara questa banalizzazione, perdendo più di un terzo dei suoi deputati. L’Rn sarà in grado di formare un gruppo parlamentare più potente del loro e di rivendicare il ruolo di secondo partito meglio rappresentato all’assemblea nazionale, davanti a La France insoumise, la componente più grande della Nupes.
Per la sinistra queste elezioni lasceranno una sensazione d’incompiutezza. L’accordo di coalizione le ha permesso di entrare in parlamento con forza. Gli insoumis e i verdi hanno ottenuto un numero di seggi senza precedenti, mentre il Partito socialista ha mantenuto i suoi a un livello molto migliore di quanto si potesse pensare dopo il risultato ottenuto al primo turno delle presidenziali. Ma in realtà il numero di voti ottenuti dalla coalizione non è cresciuto rispetto al totale del 2017, e l’obiettivo di portare Mélenchon alla carica di primo ministro è stato mancato di molto.
La coalizione dovrà fare a meno della presenza del suo mentore per imporsi come prima forza di opposizione e dare visibilità alle sue proposte.
Di fronte a questi due potenti blocchi, visto che per il momento i Républicains si rifiutano di sottoscrivere un accordo di governo con Lrm, cosa possono fare Macron e la sua prima ministra Élisabeth Borne? Chiaramente non molto, se il presidente insiste nelle posizioni e negli errori che hanno causato questo fallimento. Al giovane eletto al primo mandato presidenziale, che voleva incarnare tutte le attrattive della novità, è succeduto negli ultimi giorni un leader pronto a usare tutti i logori metodi di un presidente uscente pur di risparmiarsi una vera campagna elettorale: il ritornello del “me oppure il caos”, l’appropriazione dei simboli repubblicani, l’uso eccessivo della sua funzione pubblica, l’occultamento del programma, la denigrazione a geometria variabile degli avversari. Una iper-presidenzializzazione talmente caricaturale da vanificare in anticipo tutte le promesse di cambiamento. La cosa peggiore sarebbe perseverare in questa tattica e prendere tempo per dimostrare che la paralisi e il blocco sono colpa dell’opposizione, mordendo il freno fino alla dissoluzione del parlamento. Il tempo non permette più questi calcoli tattici. Gli anni del mandato quinquennale appena cominciato costituiscono un periodo di non ritorno, durante il quale è imperativo prendere decisioni su più fronti.
Non c’è tempo da perdere
L’ondata di caldo che ha investito l’Europa alla vigilia del voto ha sottolineato l’urgenza di agire contro il cambiamento climatico. È necessario avviare al più presto riforme per riorganizzare le nostre società basate sull’iperconsumo. La crisi geopolitica sta assumendo la forma di una guerra nel nostro continente e nel breve termine provocherà il rischio di uno shock economico, fatto di penuria e inflazione. La crisi democratica minaccia di distruggere gli Stati Uniti: in Francia è già evidente, prende la forma di un’astensione senza precedenti, e ha appena mandato in parlamento quasi cento rappresentanti di un partito di estrema destra. La combinazione di questi pericoli pone un’immensa responsabilità sulle spalle del presidente che è stato rieletto per i prossimi cinque anni.
Con il loro voto, gli elettori non hanno voluto affermare che Macron sia del tutto privo di capacità, come quelle che ha dimostrato all’apice della pandemia di covid-19. Ma sembrano avergli chiesto di cambiare radicalmente i suoi metodi: non governare più da solo o quasi, ma accettare di discutere, prendersi il tempo necessario a convincere, ricomporre invece d’imporre.
Durante la brevissima campagna elettorale appena conclusa, Macron aveva teorizzato, in modo maldestro, una “rifondazione” della vita democratica lontana dal sistema rappresentativo nazionale. La maggioranza relativa gli offre l’occasione di dedicarcisi senza indugio, all’interno del parlamento. ◆ ff
Jérôme Fenoglio è il direttore del quotidiano francese Le Monde
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Questo articolo è uscito sul numero 1466 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati