Èla più importante Biennale che si ricordi. Non per la guerra, per quanto il padiglione russo sia chiuso e i super-yacht color boršč siano banditi dalla Laguna. E neanche per il ritardo lungo un anno causato dalla pandemia, il cui riflesso è totalmente assente dalle migliaia di opere in esposizione. E a dirla tutta non c’entra neanche l’arte. Piuttosto, il cambiamento è epocale nell’impostazione. Per la prima volta le donne sono molto più numerose degli uomini, ovunque, dai Giardini all’Arsenale. Un intero cast, per troppo tempo rimasto ai margini, oggi recita sul proscenio. La 59a edizione della manifestazione veneziana passerà alla storia come la Biennale delle donne.
Un salotto ad Algeri
Sulla bocca di tutti c’è l’algerina Zineb Sedira, la cui opera, un incanto vivente, si può ammirare nel padiglione francese. Il visitatore viene accolto da una coppia in abito da sera che danza con disinvoltura al suono di una fisarmonica in un bar parigino che sembra uscito dal set di un film. È in effetti lo è, insieme alle altre strutture accessibili che lo circondano, salotti della Algeri degli anni cinquanta, della Parigi degli anni sessanta e della Londra degli anni ottanta. Il tutto riappare sullo schermo di un vecchio cinema d’essai ricostruito in fondo al padiglione.
Sedira intreccia la sua storia familiare con quella postcoloniale usando il cinema. Si ha l’impressione di guardare una sequenza della Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, a parte il fatto che la scena è a colori. Di chi è il film? Una mano riorganizza la stanza davanti agli occhi dello spettatore. Appare Sedira in persona, insieme ad amici e familiari, in qualche modo presente, prima ancora di nascere, tra gli algerini che negli anni cinquanta arrivavano in Francia. Il flusso continuo del film mette in dubbio la separazione tra realtà e finzione.
Poi c’è Sonia Boyce, la prima donna nera a rappresentare il Regno Unito nel padiglione che si trova accanto a quello francese e che ha vinto il Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale. Il lavoro di Boyce, Feeling her way, è ancora più “collettivo”, con un’ammaliante polifonia femminile: cinque cantanti, tra cui Tanita Tikaram e Jacqui Dankworth, si fanno strada attraverso un’improvvisazione musicale su schermi separati. Le donne non possono vedersi, ma le loro voci s’intessono, si aggiustano, si accordano reciprocamente scavalcando la distanza fisica. Sculture dorate diventano sedute per gli ascoltatori ed espositori per una collezione di album di artiste nere, da Shirley Bassey a Beverley Knight. Una jam session per la band dei sogni della storia nera.
Come Boyce, Simone Leigh (Leone d’oro come miglior artista della mostra internazionale) è la prima nera a rappresentare il suo paese in un padiglione degli Stati Uniti coperto da un tetto di paglia e simile a un edificio tradizionale dell’Africa occidentale. Una figura femminile di sette metri in bronzo nero con un disco al posto della testa incombe all’ingresso. Le imponenti sculture di Leigh comunicano in bianco e nero: una donna bianca in una fragile crinolina di porcellana; uno schiavo nero chino sul bucato, in solido bronzo. I suoi lavori, come il monumentale Black horse, ostacolano lo spettatore con la loro forza materiale.
L’esposizione internazionale Il latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani, prende il nome da una favola della britannica Leonora Carrington intorno a cui è costruito un sorta di studio, intimo e inquietante, del surrealismo al femminile, capace di rivaleggiare con la grande collezione surrealista della fondazione Guggenheim a Dorsoduro.
Dei 213 artisti solo ventuno sono uomini. Questa proporzione rappresenta un ribaltamento rispetto al passato. Camminando per un chilometro d’arte quasi non si vedono corpi maschili. Il trionfo è una magnifica presentazione di quadri e pupazzi inanimati di Paula Rego. All’apice si vede una pala d’altare composta da vecchi armadi con donne della letteratura e del folclore cadute in disgrazia. La società non gli perdonerà mai il loro passato.
Cuciture, tessiture, nodi, arazzi: stoffe di ogni tipo popolano questa Biennale, dai giardini pensili immensamente delicati della venerabile cilena Cecilia Vicuña agli stupefacenti tappeti astratti del padiglione del Kosovo. L’opera più splendente è il colossale fregio che riveste il padiglione polacco, costituito interamente da cuciture in appliqué create dalla giovane artista romaní Małgorzata Mirga-Tas insieme a tre collaboratrici.
Generosità e umorismo
Ispirata agli affreschi rinascimentali di palazzo Schifanoia di Ferrara, l’opera assume la forma di una narrazione su tre livelli: la storia della Polonia sopra una sorta di ciclo zodiacale completato da immagini di eroine polacche. Sotto, una sequenza di scene quotidiane: donne che s’incontrano, cantano, bevono caffè, raccolgono patate, dalla nascita alla vecchiaia. È una visione di generosità e umorismo – personaggi spiritosamente delineati dai tessuti che potrebbero usare nella vita reale – che richiede grande destrezza estetica per racchiudere ogni cosa. E pensare che quattro donne polacche hanno creato tutto questo in cinque mesi mentre la Germania non ha prodotto letteralmente niente. È quasi impossibile ignorare l’analogia geopolitica.
Naturalmente i padiglioni sono stati commissionati prima della guerra, l’arte non è uno strumento e via dicendo. Ma lo spettacolo a Venezia mostra l’Ucraina che coraggiosamente difende se stessa. Gli artisti e il curatore del padiglione russo si sono dimessi allo scoppio della guerra, dunque la Biennale non ha mai dovuto prendere la decisione morale di chiuderlo. In ogni caso i discorsi sul valore della diplomazia culturale – o il denaro dell’arte russa – non giustificano la timidezza della risposta istituzionale. Alla fine, due settimane fa, la Biennale ha offerto all’Ucraina un piccolo prato nei Giardini come padiglione provvisorio.
Ovunque troviamo forza e consolazione. Basta osservare: nella meravigliosa pioggia di fuoco di Malta che illumina l’oscurità in omaggio a Caravaggio; nel padiglione del Camerun, con le sue fotografie di donne che esplodono dal monocromo al pieno colore; nell’entusiasmante padiglione neozelandese, dove un artista polinesiano ridicolizza Gauguin in un programma tv. E soprattutto negli splendidi filmati di Francis Alÿs all’interno del padiglione belga. Children’s games – un tributo a Bruegel, compatriota di Alÿs – mostra una corsa di lumache, un nascondino, una competizione di salto con la corda ed elaborate sfide che comprendono sassi e buchi nella sabbia. Tutto questo, tutta questa gioia e questa allegra improvvisazione, si svolge tra le rovine della povertà e della guerra. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati