La dura condanna inflitta il 31 marzo a Marine Le Pen per appropriazione indebita di fondi pubblici ha avuto un effetto rivelatore. Ha dato un’inaspettata consistenza a quella “internazionale reazionaria” che era stata evocata a gennaio dal presidente francese Emmanuel Macron. Da Mosca a Washington passando per Budapest, non sono mancate le espressioni di solidarietà verso la leader del Rassemblement national né le osservazioni più cupe sullo stato della democrazia francese. La propensione a contrapporre il “popolo”, su cui questa “internazionale” pretende di avere il monopolio, allo spettro di un “governo dei giudici” accomuna chi è convinto che la legge dovrebbe piegarsi ai programmi politici più discutibili e alle scadenze elettorali, e che la popolarità garantisca l’impunità. Di certo, la traiettoria che ha portato al ritorno al potere di Donald Trump negli Stati Uniti non può che ridare speranza a tutti i populisti costretti a fare i conti con la giustizia.

Il rispetto dello stato di diritto e della separazione dei poteri è al centro della frattura emersa in quello che chiamiamo per comodità “schieramento occidentale”, fondato su valori come l’uguaglianza davanti alla legge. Il magistrato che emette una sentenza in nome del popolo e che poi subisce insulti e minacce solo perché applica le regole votate dal potere legislativo è diventato il simbolo di questa crisi. L’allarme lanciato in Francia dal consiglio della magistratura dopo le reazioni violente suscitate dalla sentenza che condanna Le Pen riecheggia quello espresso due settimane prima dal presidente della corte suprema degli Stati Uniti John Roberts, di fronte all’esplosione di ostilità verso i giudici federali che avevano bloccato i decreti di Trump.

Il rispetto delle sentenze è uno dei fondamenti della democrazia. E non impedisce di contestare una decisione in appello. Attaccando queste basi si corre il rischio d’indebolire l’intero edificio democratico. Quando se la prende con i giudici che non gli danno ragione, Trump segue la stessa logica che lo spinge a moltiplicare le dichiarazioni su un eventuale terzo mandato, vietato dalla costituzione, anche se probabilmente è solo una tattica per rinviare qualsiasi dibattito sulla sua successione. Gli attacchi ai giudici, le epurazioni nelle agenzie federali, il ricatto degli aiuti negati e le intimidazioni sistematiche sono i segnali di un fenomeno già visto altrove: la nascita di uno stato illiberale. ◆ as

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati