Quella notte uno degli uragani che in Florida, negli Stati Uniti, distruggono tutto ciò che incontrano si era spinto fino in Canada. Pioveva come se fosse il giorno del giudizio. Il vento stava sradicando gli alberi dalle radici e temevo che si sarebbe portato via anche noi e la nostra casa. All’alba avevamo deciso comunque di partire per le vacanze.
Per la prima volta in vita mia notavo che il buio poteva anche essere grigio. Non si vedeva a un palmo dal naso. La notte era senza stelle, e senza luna. La reception dell’hotel nella penisola Gaspé, in Canada, dove eravamo diretti, avrebbe chiuso alle dieci di sera, così siamo partiti alle quattro del mattino per essere sicuri di arrivare in tempo.
La penisola si trova nel Québec sudorientale, l’unica provincia canadese che adotta come lingua ufficiale il francese. Accanto alla penisola scorre il fiume San Lorenzo, uno dei più grandi al mondo, che sfocia nell’oceano Atlantico. La bellezza di questa zona sta nella natura selvaggia e negli ampi spazi. È lontana dai grandi centri abitati e non è molto popolata. Le montagne incombono sul fiume, così largo che non si riesce a vedere l’altra riva. Infatti, gli abitanti del posto lo chiamano “mare”. Fino a quando non sono scesa dall’auto pensavo che fosse un’esagerazione. L’aria è impregnata di salsedine e odora di oceano. Nella baia confluiscono le acque del fiume e quelle dell’Atlantico, e la salinità e la profondità sono tali che d’estate le balene vengono qui a riprodursi.
La parte pianeggiante della penisola è quella più turistica, in cui ci sono alberghi e spiagge. La parte montana invece è più selvaggia e ventosa, con piccole case colorate abbarbicate sugli altipiani che affacciano sull’oceano. La strada lungo il fiume è stretta e tortuosa. All’inizio, dove non è ancora stretta tra le montagne, si percepisce la vastità dello spazio. Andando avanti le montagne si fanno più minacciose. La strada sembra rimpicciolire e noi con lei. È una sensazione incredibile guidare su una strada che pensi appartenga prima all’acqua e un attimo dopo alla montagna. Tutto è magico, anche quando piove e il fiume è in piena. Ha un aspetto spaventoso perché prende il colore grigio del cielo e le onde si frangono sulla riva, arrivando fino alla strada.
A un certo punto abbiamo cominciato a salire in alto. Il corso d’acqua si vedeva in lontananza ed era ancora enorme. In ogni piccola baia c’era un villaggio, che raramente superava le venti case. Molte erano colorate. Il panorama era affascinante: il blu del cielo e del fiume insieme al verde dei boschi e dell’erba.
Siamo arrivati in albergo di sera tardi. La pioggia stava diminuendo. Il villaggio era piccolo e le case allineate lungo il ciglio della strada, in direzione del mare. Alla reception c’era scritto che parlano francese, inglese e cinese. Ma davvero qualcuno qui, alla fine del mondo, parla cinese? La mattina dopo ci ha svegliato il sole. In un impeto di gioia ho aperto la finestra per vedere il mare, ma l’ho chiusa con la stessa velocità: fuori c’era un freddo polare. Qui in Canada il sole splende, nell’Adriatico scalda.
Il villaggio si chiama Cap-des-Rosiers, ossia Capo delle rose selvatiche, nome dato da Samuel de Champlain (1567-1635), una delle figure più importanti della storia canadese, fondatore della Nouvelle-France (così era chiamata l’area del Nordamerica colonizzata dai francesi). Descrisse il villaggio nelle sue mappe del 1632 e lo chiamò con il nome delle rose presenti nella regione. Nel 1763 il villaggio fu ufficialmente considerato il punto finale del corso del fiume San Lorenzo e quello iniziale della baia omonima.
Nel 1759 da queste scogliere un ufficiale francese avvistò la flotta britannica del generale James Wolfe, che stava risalendo il fiume in direzione della città di Québec. Il marchese di Montcalm, un generale francese, non riuscì però a difendere la città. Wolfe e le sue truppe sconfissero i francesi nella battaglia della piana di Abraham. La colonia che ora chiamiamo Canada passò sotto il dominio britannico.
Dal villaggio l’altra riva del fiume non si vede. L’aria odora di sale e ci sono i beluga a filo d’acqua. Immaginiamo i velieri che duecento anni fa navigavano sul fiume, in acque che non avevano mai solcato. I francesi non temevano incursioni nemiche nei territori conquistati perché l’unica via per raggiungerli era il fiume San Lorenzo. Data la sua pericolosità e imprevedibilità credevano che nessuna flotta avrebbe tentato di risalirlo. Così fu, finché non ci provarono gli inglesi.
I naufragi erano frequenti. Nell’aprile 1847 la nave The Carricks, su cui viaggiavano famiglie irlandesi in cerca di fortuna in questa nuova frontiera, affondò nei pressi di Cap-des-Rosiers. Gli abitanti del villaggio salvarono cento persone su 187, le altre non furono mai ritrovate. Centoventi anni dopo una campana della nave fu ritrovata dall’altra parte della baia, vicino all’isola di Terranova. Fu poi issata in una chiesa del villaggio per commemorare le vittime. Poco dopo il naufragio fu costruito un faro. Nel 1858, dopo cinque anni di lavori, Cap-des-Rosiers poté vantare il faro più alto del Canada: 34 metri, incastonato sul bordo della scogliera. Il faro è aperto ai turisti. Le scale sono strette fin dalla base e più si sale e più lo spazio si restringe. La vista sulla baia è bellissima. Il vetro è leggermente appannato, ma il blu del cielo e del mare è visibile in ogni direzione.
Quando sono salita ero così in alto che ho immaginato di poter vedere i contorni dell’Europa all’orizzonte. La guida ci ha spiegato che durante la seconda guerra mondiale da qui furono avvistati i sottomarini tedeschi e che, come duecento anni prima, fu dato l’allarme. In quell’occasione però gli abitanti della zona non persero la guerra.
Lasciata Cap-des-Rosiers siamo andati verso la città di Gaspé. Ha poco più di quindicimila abitanti. Il sole investe il porticciolo turistico circondato dalle colline che fanno da cornice alle case. Sembra che tutto sia stato costruito in modo che da ogni casa si possa vedere il mare. Le barche dondolano sull’acqua. È un posto accogliente, bello e tranquillo.
Ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere qui. Poi mi sono venute in mente le strade in salita quando nevica e la voglia mi è passata. In Canada l’estate dura al massimo due mesi.
Il giorno dopo siamo andati a Percé, un paese sulla costa che ha una lunga spiaggia. Uno sperone di roccia con un foro scavato dal mare è diventato un’attrazione turistica. Nelle vicinanze si possono raggiungere delle piccole isole a bordo di una barca o con un kayak a noleggio, dove si possono osservare varie specie di uccelli.
L’entroterra
Ci siamo seduti sulle panchine in spiaggia e abbiamo guardato il mare. Qualcuno faceva il bagno. C’era il sole ma soffiava anche un vento forte e tonificante. La temperatura dell’acqua non superava i cinque gradi, ma una persona nuotava tranquilla come se fosse nell’Adriatico.
La resistenza dei canadesi al freddo è affascinante. A un certo punto ho visto una testolina nera accanto all’altro nuotatore. Ho pensato fosse il suo cane. Ma dopo poco la piccola testa è scomparsa dentro l’acqua. Ma che razza di cane può stare più di due minuti sott’acqua? Stavo per urlare per richiamare l’attenzione sul cane, che probabilmente era affogato, quando dopo tre minuti la testa è riaffiorata. Non era un cane, ma una foca. Il giorno dopo ne ho vista un’altra su una nuova spiaggia e l’ultimo giorno cinque o sei che nuotavano e si divertivano vicine alla spiaggia.
Poi siamo partiti verso sud, costeggiando l’oceano finché è stato possibile. Quando è finita la costa abbiamo proseguito nell’entroterra e abbiamo attraversato la valle del fiume Matapédia. Intorno a questo tratto ci sono colline, boschi e i ponti che spuntano dal canyon. Poi c’è un lago e il fiume continua oltre. Le case sulla collina si susseguono. Tutto è ordinato e curato, quasi da sembrare finto. Ci mancava solo un forno che spandesse l’odore del pane nel villaggio e ci facesse venire voglia di fermarci a comprare qualche croissant.
Per chi sa stare in pace con se stesso, è stufo del mare e non ama il caos delle grandi città, la tranquillità di questo luogo selvaggio è l’ideale. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati