Il Leone d’oro della 78a edizione della Mostra del cinema di Venezia è andato a L’événement di Audrey Diwan, basato sul romanzo autobiografico L’evento _di Annie Ernaux (L’orma editore, 2019): un vento freddo che ha soffiato sul Lido. Diwan che nel 2019 ha diretto un primo film meno interessante, _Mais vous êtes fous, e ha lavorato come sceneggiatrice per altri registi, in particolare Cédric Jimenez (con l’orribile Bac nord), ha domato la vecchia belva veneziana e la giuria presieduta da Bong
Joon-ho grazie alla dignità del suo soggetto. Raccontando passo dopo passo gli ostacoli che la giovane Anne Duchesne (Anamaria Vartolomei) deve superare per riuscire ad abortire all’inizio degli anni sessanta, quando la legge e la morale dominante lo vietavano ferocemente, L’événement non è del tutto privo di convinzione, nonostante un ritmo un po’ fluttuante e indeciso che a tratti fa somigliare la sua corsa contro il tempo e i tempi a una semplice passeggiata autunnale.

Verso l’ultraletterale

L’intera messa in scena sembra dettata da un singolo passaggio del testo di Ernaux: “I mesi successivi sono immersi in una luce di limbo. Mi vedo per le strade, intenta a camminare senza sosta”. L’equivalente cinematografico di questa atmosfera, di questa peregrinazione, si mantiene sul filo di un’eccessiva leggerezza. Sono le scene a casa della “mammana”, interpretata da Anna Mouglalis, a restituire al film precisione e intensità, nei gesti e negli affetti, che altrimenti evaporano a favore della ricerca evidente e consapevole di un’estetica e non della descrizione di un vissuto.

Poiché ancora oggi in tutto il mondo (perfino, e non è cosa da poco, nel paese che ospita la Mostra) l’aborto resta un percorso disseminato di ostacoli, di dissuasioni violente e di opinioni fuori luogo, il premio ha un suo valore simbolico. E insieme alla palma d’oro di Cannes, Titane, indica il consolidamento e il trionfo di un certo cinema francese che potremmo definire post-commerciale, che riversa le condizioni del cinema d’autore nello stampo di una fattura particolarmente docile, in cui l’esplicito e il frontale regnano sui sentimenti e sui corpi. Questo slancio verso l’ultraletterale rompe con decenni di sottigliezze e sottotesti, che sicuramente per molti sono un’affettazione asfissiante. È un altro tipo di sofisticazione, che mostra tutto a chiare lettere e reinventa un suo accademismo, puntando evidentemente a riconciliarsi con l’industria cinematografica, che di questi tempi la spunta dappertutto.

È l’industria del cinema a dire la sua, a fissare le convenzioni, a disegnare le forme, quindi anche a consentire le infrazioni. Non è un complotto, piuttosto è una struttura. Concentrandosi sui vincitori, nella gara ufficiale e nella sezione Orizzonti, in teoria meno vincolata dall’imperativo della grande forma, i premi della giuria sono andati ai due film più belli: Il buco di Michelangelo Frammartino ed El gran movimiento di Kiro Russo hanno in comune l’intransigenza e il rifiuto del compromesso.

L’événement - Rectangle Productions
L’événement (Rectangle Productions)

Penélope Cruz, senza grandi sorprese, si aggiudica la coppa Volpi come migliore attrice per Madres paralelas di Pedro Almodóvar e non per l’altro suo film in gara, la meta-commedia Competencia oficial di Mariano Cohn e Gastón Duprat, in cui il suo personaggio, una regista, stritola le statuette e i premi di grandi festival internazionali. Una scena che probabilmente le ha portato fortuna.

John Arcilla, protagonista di On the job 2 di Erik Matti, presentato alla fine del festival, ha ottenuto il premio maschile (Venezia sembra lontana dall’opzione non binaria adottata dalla Berlinale). In questo thriller poliziesco filippino che descrive l’ambiente della stampa sullo sfondo della corruzione politica e della manipolazione dell’informazione, Arcilla interpreta un giornalista al servizio del sindaco di una città più o meno immaginaria, che alza la testa quando il politico fa assassinare e sparire alcuni suoi colleghi. Il sequel di On the job (2013) è un geniale film trash che supera il confine del romanzo d’appendice e che per la violenza e la fedeltà al cinema di genere allo stato puro segna un’evidente rottura con il resto della selezione veneziana, che pure non è stata avara di torture e sevizie di ogni genere.

Affrontare il deserto

Premiando Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio), Jane Campion (The power of the dog) e Maggie Gyllenhaal (The lost daughter), la giuria della gara bacia con fervore le mani inanellate del doge Netflix, ma sceglie la via della sottigliezza, date le circostanze: volta le spalle a ben altre purghe, dei supplizi per inviati, relegate agli ultimi giorni della Mostra. È il culto della sofferenza che occupa il centro della scena, una religione comune ai film d’autore e non, che si distinguono solo per l’ambizione. Dai film idioti delle giovani montature pubblicitarie italiane, come Freaks out di Gabriele Mainetti o America Latina dei fratelli D’Innocenzo, a Captain Volkonogov escaped di Natalja Merkulova e Aleksej Čupov, improbabile vignetta russa che applica le ricette dei film Marvel alla storia sovietica degli anni trenta, amiamo soffrire a tutto spiano.

Di gran lunga migliori, ciascuno nel suo genere, e intrisi di uno spirito di serietà, due film che concludono le loro pazienti analisi con coraggiosi discorsi di resistenza. Żeby nie było śladów, di Jan P. Matuszynski, ricostruisce le conseguenze della morte di Grzegorz Przemyk, studente polacco ucciso dalla milizia nel 1983, e le pressioni esercitate dal potere comunista sui suoi compagni sostenuti da Solidarność, offrendo una classica e interessante lezione di storia che sul finale sfocia nella magniloquenza, con una dichiarazione della madre del martire, la poeta Barbara Sadowska, a favore della libertà. L’email finale inviata ai suoi superiori dal direttore di fabbrica Philippe Lemesle (Vincent Lindon) in Un autre monde di Stéphane Brizé possiede lo stesso genere di dichiarazione sul contenuto: una sorta di passaggio alla dogana. Attuale campione di un cinema anticapitalista ma non antinaturalista, Brizé con rigore, sinonimo di una certa ottusità, fa una radiografia del funzionamento di un mondo del lavoro, il nostro, dedito, casomai non lo sapeste, alla retorica letale del management, delle risorse umane e della felicità degli azionisti.

Dopo un’ora e mezzo di straordinari di sicuro sogniamo un altro mondo. Che fare? Dimettersi? Cambiare la vita? Trasformare il mondo? Sono parole d’ordine che non appartengono a questo luogo, i film del Lido non se ne curano, con tre sole eccezioni. O quattro? Alla fine si capisce che, evidentemente sotto Prozac, il deprimente Dune aveva ragione: bisogna imparare ad affrontare il deserto. Lasciamo Venezia senza una soluzione. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 85. Compra questo numero | Abbonati