Mentre sull’Australia incombe un’altra lunga e calda estate, i 26 milioni di abitanti si preparano a una stagione di preoccupazioni per il cambiamento climatico e per il costo della vita che si sommano alle inquietudini economiche diffuse anche nel resto del mondo. Le comunità indigene, che rappresentano quasi un milione di australiani, hanno anche un altro problema: la costituzione del paese non riconosce la loro esistenza. Gli anziani della comunità come Jim Morrison sperano che il referendum del 14 ottobre per modificare la situazione possa cambiare anche la vita degli aborigeni e degli abitanti delle isole dello stretto di Torres, che vivono in questi territori da 65mila anni. L’emendamento costituzionale è sostenuto con forza dal primo ministro Anthony Albanese e dal suo Partito laburista, mentre i leader dell’opposizione sono contrari.
Se la proposta di modifica costituzionale nota come Voice to parliament sarà approvata, per la prima volta le popolazioni indigene saranno formalmente riconosciute nella legge fondamentale dello stato, scritta nel 1901 durante il dominio britannico. Sarà inoltre istituito un organo consultivo, Voice, per promuovere misure destinate a colmare le disuguaglianze che le comunità indigene sperimentano ancora oggi nell’aspettativa di vita, nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nelle opportunità di lavoro.
Dei 44 referendum indetti dal 1901 a oggi, ne sono stati respinti 36
Gli ultimi sondaggi suggeriscono però che nel paese, ancora profondamente diviso su come affrontare gli effetti del trattamento subìto dalle popolazioni indigene, il referendum non passerà.
Chi è contrario all’iniziativa sostiene che le comunità già ricevono un buon trattamento e sufficiente attenzione dal governo e sono rappresentate in modo adeguato in parlamento. Il voto a livello nazionale lascerà in ogni caso un segno profondo su persone come Morrison, 69 anni, che da tempo si batte per i diritti degli indigeni nella Noongar boodja, una patria tradizionale che si estende su un’ampia regione dell’Australia sudoccidentale. Morrison spiega che gli uffici pubblici dedicati a queste comunità non riflettono le esigenze delle persone che dovrebbero rappresentare. “Vedrai più aborigeni nelle foto appese alle pareti dell’ufficio che tra il personale incaricato di un servizio per la comunità. È una vergogna”.
La proposta Voice è il primo tentativo di modifica costituzionale a beneficio di comunità storicamente discriminate ed emarginate alle quali lo stato australiano di recente ha chiesto formalmente scusa. Morrison rappresenta i sopravvissuti alle leggi australiane sull’assimilazione in base a cui, tra il 1910 e i primi anni settanta, un bambino indigeno su tre – inclusi i genitori di Morrison – fu allontanato dalla famiglia e inserito nella società dei bianchi. Molti non sono mai stati risarciti per i traumi subiti e oggi lottano per far sentire la loro voce.
Il minimo indispensabile
Per quanto sia grave la situazione delle comunità indigene – dove, tra le altre cose, l’aspettativa di vita degli uomini è di quasi nove anni inferiore a quella dei non indigeni – modificare la costituzione in Australia è ancora difficile. Dei 44 referendum indetti dal 1901 a oggi, ne sono stati respinti 36, compreso quello che nel 1999 proponeva di non avere più il sovrano britannico come capo di stato e diventare una repubblica. Quello imminente è il primo referendum indetto da allora. Per essere approvato dovrà essere sostenuto dalla maggioranza degli australiani al livello nazionale e dalla maggioranza degli elettori in almeno quattro dei sei stati del paese. Anche se più dell’80 per cento degli indigeni è per il sì, sembra che nella maggior parte degli stati le intenzioni di voto siano contrarie.
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La proposta è stata avanzata per la prima volta nel 2017 da un gruppo di 250 leader indigeni, sotto forma di petizione, dopo sei mesi di colloqui con 1.200 rappresentanti degli aborigeni e degli abitanti delle isole dello stretto di Torres. Il dibattito sulla proposta si è però polarizzato anche tra loro, e oggi alcuni gruppi lo ritengono uno strumento inefficace per promuovere i diritti.
I suoi sostenitori ritengono, invece, che quest’organo consultivo contribuirebbe a risolvere anni di fallimenti del governo in materia di affari indigeni. Secondo la docente Marcia Langton, una studiosa indigena che ha contribuito a progettare il modello Voice, se questo fosse riconosciuto dalla costituzione consentirebbe agli aborigeni e alle popolazioni dello stretto di Torres di cominciare a “prosperare e non più solo a sopravvivere”. Per Langton, Voice potrebbe contribuire a unificare il paese. “È compito di tutti gli australiani garantire che il nostro parere arrivi in parlamento e che leggi e politiche inadeguate siano modificate per garantirci pari opportunità”.
Anche il primo ministro Albanese ha espresso la speranza che il voto possa essere “un momento di unità per gli australiani”. Tuttavia il sostegno a Voice è calato perché non sono chiari i dettagli sul suo funzionamento. Agli elettori si chiede di approvare il principio alla base del referendum e non un particolare modello di attuazione. Ma il governo per ora non si è espresso su un modello specifico. Chi si oppone all’iniziativa sostiene che gli indigeni sono già adeguatamente rappresentati nel parlamento federale: gli 11 deputati indigeni sono il 4,8 per cento dei 227 parlamentari, mentre gli indigeni sono il 3,8 per cento della popolazione.
La strada per l’approvazione del referendum si è fatta più ripida ad aprile, dopo che il principale partito d’opposizione si è schierato per il no. Peter Dutton, a capo della Coalizione di centrodestra, ha definito Voice una proposta “radicale” che “imporrebbe di nuovo categorie razziali” al paese, e ha inoltre escluso la possibilità di negoziare trattati con le comunità indigene. L’opposizione di Dutton fa temere ad alcuni attivisti indigeni che Voice diventi un’istituzione “impotente”, distragga da priorità più rilevanti, tra cui il diritto alla terra e i negoziati sui trattati fra lo stato australiano e le comunità indigene. Pur diventando parte della costituzione, i poteri consultivi di Voice potrebbero essere annullati dai governi in carica, che non sarebbero obbligati a seguirne le raccomandazioni. “La dura opposizione della Coalizione”, dice Keiran Stewart-Assheton, presidente della Black peoples union, contrario all’iniziativa referendaria, “ha insinuato nella gente il timore che se il referendum non passerà, allora non si potrà discutere di alcun progresso per i popoli indigeni nella forma di trattati e altre iniziative simili”.
Judith Brett, tra le più note esperte di storia politica del paese, osserva che il quadro del sostegno o dell’opposizione al referendum riflette le più ampie divisioni interne alla società sulla sua identità e alla sua storia coloniale. “Gli australiani non hanno trovato un’unità su questa storia, perciò il referendum non ha un sostegno bipartisan”, dice Brett, docente emerita di scienze politiche alla Trobe university di Melbourne. Secondo un sondaggio della Abc, gli elettori ritengono più importanti questioni come l’aumento del costo della vita, il cambiamento climatico e l’economia.
Per Langton, un’attivista di spicco che si batte per i diritti degli aborigeni da più di cinquant’anni, la proposta della Voice to parliament è il “minimo indispensabile” dovuto agli indigeni australiani. Dal suo punto di vista, una sconfitta del referendum sarebbe una grave battuta d’arresto nella lotta per l’autodeterminazione degli indigeni.
I sostenitori del sì confidano che una nuova campagna da 20 milioni di dollari australiani (12,1 milioni di euro) e una serie di iniziative in tutto il paese possano contribuire a ribaltare la situazione. Morrison, l’anziano noongar, è convinto che spetti agli indigeni come Freeman convincere gli australiani a votare sì. A suo avviso gli attivisti indigeni non dovrebbero evitare di raccontare anche alcune verità scomode sulla storia dell’Australia. Molte persone che votano no, aggiunge, non conoscono le ingiustizie subite dagli indigeni in passato o gli ostacoli che devono affrontare ancora oggi. “Perché tutto questo non è mai stato insegnato nelle nostre scuole”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati