Il nuovo libro di Margo Jefferson è un memoir atipico nella forma. Comincia con un incubo in cui l’autrice, su un palcoscenico vuoto, punta contro se stessa un dito accusatore. Quando le luci si riaccendono capisce di doversi “martellare, segare e scalpellare via tutte le parti immeritevoli,” e poi ricostruirsi. Sempre in bilico tra autobiografia e saggio critico, conduce infine verso la definizione di questo processo come “un’autobiografia caratteriale”. Il libro di Jefferson, vincitrice di un premio Pulitzer nel 1995 per la critica letteraria, non è un edificio stabile, ma un tentativo di ridefinire i confini del memoir rendendolo un “dispositivo fatto di parti mobili”: il sistema nervoso che immagina non è fatto di materiale biologico, quanto di frammenti vitali “certi, imposti, ereditati, inventati”. Ci sono versi di poesie, pezzi di canzoni, pagine di diario, lettere introdotte da titoli in grassetto, parole in corsivo, note che rendono Sistema nervoso in costruzione un testo di non facile lettura. Ma così dev’essere, come per tutti i libri che mescolano critica pubblica e memoria privata – un esperimento già fatto dall’autrice in Negroland (66thand2nd) – sfidando la forma, l’ordine cronologico e perfino la coesione del materiale (penso a Maggie Nelson): sono letture da soppesare e maneggiate con grande lentezza.
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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati