Tempo fa mia madre mi ha confessato di aver cominciato a scrivere la sera: “Cose che mi sono successe, storia di mia vita”. Ho provato a immaginare la lingua di quella sorta di diario. Probabilmente somiglia all’italiano con cui Janek Gorczyca racconta le cronache della sua esistenza a Roma. L’autore è un polacco che vive da trent’anni nella capitale, senza documenti, senza casa né lavoro fisso. In questo libro riversa la sua vita, un tutt’uno con le strade della città, gli abitanti con cui coltiva rapporti, le dinamiche che lo portano ora a soccombere, ora a sopravvivere. Di questo esordio mi ha colpito la distanza da ogni altro esempio della cosiddetta letteratura della migrazione in Italia, da Io, venditore di elefanti di Pap Khouma, scritto con Oreste Pivetta, a Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato. Qui il valore di testimonianza dello scrittore non è mediata. L’italiano di Gorczyca riesce a dare alla lingua e alla vita che narra una dignità, quello spazio di autorevolezza che mi sembra siano riuscite a conquistarsi le lingue creole. Un registro asciutto, senza filtri anche nel modo diretto e disarmante con cui racconta, affranca Storia di mia vita dall’idea dell’autobiografia come registratore di una sola storia, e lo proietta su un piano collettivo, che coinvolge quanti condividono un marciapiede, la povertà, la precarietà della vita di strada che “non concede sconti”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati