Anita, studente universitaria di storia dell’arte, si rifiuta di riconoscere di essere malata. Eppure ha un contapassi al polso, non ha sangue nelle vene, non mangia quasi nulla e di quel poco che ingerisce tiene spasmodicamente il conto delle calorie. Sotto la minaccia di un trattamento sanitario obbligatorio, accetta di essere ricoverata nel reparto di un ospedale popolato da donne che le fanno da specchio. Una in particolare, Flavia, sembra una finestra sul futuro. Il romanzo di Sciarrillo si differenzia da altri che ho letto sul tema perché non regge la narrazione sulla causa, ma sull’effetto: linguaggio chirurgico e ambientazione clinica ripuliscono dall’irrazionalità l’ossessione per il proprio corpo. E agli occhi di chi non comprende il vangelo del digiuno, del vomito, del gonfiore della pancia, svela il cortocircuito di chi si guarda allo specchio, desiderando un corpo trasparente, esercitando la propria volontà sull’unico aspetto della vita che possono controllare. Anche la scrittura sembra più efficace nella fisicità dei personaggi che nei loro dialoghi. È il secondo libro sui disturbi alimentari che leggo nel giro di poco tempo, entrambi a partire da un’esperienza autobiografica. Nell’esordio di Sciarrillo si sente una distanza, quasi decisa a priori, tra la materia narrativa e quella del memoir, una scelta che sottrae corpo al testo, lo asciuga. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati