In autunno ho tenuto dei corsi di scrittura e mi sono resa conto che gran parte degli studenti leggeva gli stessi libri: firme note, grandi case editrici, i titoli più chiacchierati, quelli premiati. Assente quella letteratura postcoloniale a me tanto cara, romanzi che ti permettono di cambiare prospettiva sul mondo, che pungolano con la lingua, la geografia, la scrittura. Leggere autrici e autori palestinesi, oggi più che mai, è questo: essere pungolati. Anton Shammas pubblicò Arabeschi nel 1986 e ora torna disponibile in Italia, tradotto da Laura Lovisetti Fuà. La scelta linguistica è politica: Shammas lo scrisse in ebraico per rivolgersi al pubblico israeliano e raccontar loro gli eventi del 1948, la Nakba, come li hanno vissuti i palestinesi. Il romanzo corre lungo due binari: il binario del racconto ricostruisce le vicende del villaggio di Fassuta, dove la quotidianità s’intreccia alla magia; quello del narratore segue, tra Parigi e l’Iowa, un alter ego dell’autore, che si è allontanato a una distanza di sicurezza per poter raccontare meglio la sua casa. Al di là della questione palestinese, le domande di Shammas (chi sono? Cosa ero? Chi può scrivere? Quale storia raccontare?) mi riportano in mente gli interrogativi che si sono posti anche altri (Salman Rushdie, Nam Le). Rispecchiano i dubbi che ho nel guardare e scrivere del mondo da questo spazio quaggiù. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati