L’esordio di Marta Aidala comincia con pagine bellissime, in cui il travaglio di una vacca e quello di una donna procedono di pari passo. Elbio e il vitellino nascono lo stesso giorno. La scrittura è essenziale e precisa, in poche righe ci dice moltissimo. Beatrice incontra Elbio alla soglia dei suoi trent’anni: è fuggita dalla città, da una tesi, da una vita, per lavorare in un rifugio all’ombra della Becca. La brigata di lavoratori stagionali che condiscono le giornate della ragazza fanno da sfondo al paesaggio, con il gestore Barba, il personaggio più riuscito, a stagliarsi come una vetta severa. Neppure di lui, però, ci viene detto molto, è parte dell’ambientazione. Bea prova per la montagna l’ammirazione di chi non ci è nato: sembra una parentesi simile al suo anno in Irlanda, e anche il suo rapporto con Elbio nasce temporaneo, destinato a sciogliersi come la neve in primavera. Alla fine Beatrice dice che c’è la montagna di chi va e viene, e quella di chi resta. Vengono in mente anche le vite di chi, nato lassù, non desidera che andarsene perché quel paesaggio offre solo se stesso. Quella densità di significato delle prime pagine l’ho cercata per tutto il romanzo, dove il segno si fa meno essenziale nel raccontare la natura e le sensazioni che genera. Eppure quegli sprazzi in cui Aidala sottende molto scrivendo poco e in maniera diretta sono quelli che più illuminano il suo romanzo. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati