Noemi Abe
Damè
Bompiani, 256 pagine, 17,10 euro

Scritto in terza persona, l’esordio di Noemi Abe somiglia a un ininterrotto flusso di coscienza, fatto di brevi ricordi, sensazioni contrastanti, riflessioni che non vogliono diradare la nebbia. La protagonista del romanzo è Mirì Saito, figlia di padre giapponese e madre italiana, cresciuta nell’incongruenza di aver frequentato le scuole private, ma di non essere riuscita a pagare gli affitti delle case popolari. La contraddizione è di classe, prima ancora che culturale, linguistica, di desideri, e la segue anche in età adulta, nella sua relazione con l’avvocato romano Rugantino. Damè è un vocabolario giapponese-italiano, in cui l’autrice sembra dirci che qualsiasi regola di traslitterazione non sarà mai abbastanza accurata per tradurre l’universo in cui vive, per definire la sua identità e la sua storia sparpagliata tra l’Asia e l’Europa. A volte nei passaggi tra il presente e il passato si perde l’orientamento; da una considerazione alla successiva, la narrazione vira bruscamente tra l’est e l’ovest. Abe ha composto un romanzo convincente: sviscera l’annosa quanto complessa questione dell’identità e dell’alienazione, riuscendo a trovare un passo nuovo e una prospettiva insolita, quella sulla lingua e la geografia giapponese, che mancava. Damè è un romanzo che si legge con meraviglia. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati