L’umiliazione inflitta agli eserciti etiope ed eritreo dai ribelli delle Forze di difesa del Tigrai (Tdf) ha accelerato il crollo dello stato etiope. Dopo la riconquista di Mekelle, il leader delle autorità civili tigrine Debretsion Gebremichael ha dichiarato che il futuro della regione all’interno della federazione etiope è in dubbio. “La fiducia si è spezzata”, ha detto Gebremichael. “Se non ci vogliono, perché dovremmo restare?”. Il futuro, ha aggiunto, dipenderà dalla “politica del governo centrale”.

In parte ispirati dai recenti fatti nel Tigrai, due gruppi separatisti oromo, il Fronte di liberazione oromo e il Congresso federalista oromo (entrambi espressione del gruppo più numeroso del paese), hanno annunciato l’istituzione di un governo di transizione in Oromia. Anche il primo ministro etiope Abiy Ahmed è oromo, ma i separatisti non si fidano di lui.

Il 28 giugno Abiy ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale nel Tigrai, ma solo dopo che le sue truppe erano state sconfitte sul campo di battaglia. Il ministro degli esteri Demeke Mekonnen Hassen ha aggiunto di voler “risolvere la crisi con il dialogo”. Tuttavia le Tdf sono considerate un’organizzazione “terroristica” dal governo centrale e sono uscite notizie di tigrini picchiati e incarcerati in altre città etiopi. Il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) – la formazione politica e militare che costituisce il grosso delle Tdf – ha fatto sapere che aderirà al cessate il fuoco e parteciperà ai colloqui con il governo federale solo se i soldati eritrei e le milizie amhara lasceranno il Tigrai.

I più colpiti

Per il momento la maggiore preoccupazione della comunità internazionale è il deterioramento della situazione umanitaria nella regione: secondo le Nazioni Unite, 400mila persone stanno morendo di fame e 1,8 milioni sono a rischio di carestia. Il mese scorso il coordinatore delle emergenze dell’Onu, Mark Lowcock, ha riferito che “i soldati eritrei stanno utilizzando la fame come arma di guerra” e che “lo stupro è usato sistematicamente per terrorizzare e brutalizzare donne e bambine. Gli operatori umanitari sono stati uccisi, interrogati, picchiati e gli è stato impedito di consegnare gli aiuti alle persone che morivano di fame, con l’ordine di non tornare”. Secondo Lowcock è la peggiore carestia dell’ultimo decennio. L’Onu ha confermato che le forze armate amhara hanno distrutto un ponte che attraversava la profonda valle del fiume Tekezé, da cui passava la maggior parte degli aiuti umanitari diretti nel Tigrai. Nel frattempo a Mekelle sono state interrotte le forniture elettriche e le telecomunicazioni.

I tigrini sono animati dalla convinzione che contro di loro sia stato tentato un genocidio

Pulizia etnica

Un rapporto interno degli Stati Uniti, a cui il New York Times ha avuto accesso, accusa i miliziani della regione Amhara di aver condotto una campagna sistematica di pulizia etnica nel Tigrai, cancellando interi villaggi con la violenza e le minacce. Un rapporto di Amnesty international accusa le forze eritree di aver ucciso centinaia di civili disarmati nella città di Axum, in Tigrai, alla fine di novembre del 2020.

Secondo alcuni analisti, i ribelli tigrini si sono imprigionati con le loro stesse mani in un territorio senza sbocchi e circondato da nemici. Ma, allo stesso tempo, sono animati dalla convinzione che contro di loro sia stato tentato un genocidio e combattono praticamente con le spalle al muro: non per scelta, ma per la loro sopravvivenza. Le Tdf sono guidate da un abile stratega militare, il generale Tsadkan Gebretensae. Alla testa del Tplf, insieme alle forze eritree sue alleate, il generale Tsadkan nel 1991 marciò su Addis Abeba per rovesciare il regime di Menghistu. Nel 2000, invece, guidò le forze militari etiopi nella guerra di confine contro l’Eritrea.

In molti si chiedono cosa faranno le Tdf se i negoziati non dovessero decollare. Tsadkan potrebbe tentare lo strappo marciando su Addis Abeba, ma sarebbe un passo più lungo della gamba senza l’appoggio politico di altri importanti gruppi etnici, soprattutto degli oromo. Oppure potrebbe decidere di muovere su Asmara, la capitale dell’Eritrea, per cercare di rovesciare o quantomeno per sostenere la ribellione contro il presidente Isaias Afewerki, la cui posizione è sempre più traballante per via dell’opposizione interna. Questo è ciò che molti giovani tigrini vorrebbero e secondo alcuni resoconti le forze delle Tdf si starebbero dirigendo verso nord. In ogni caso gli equilibri sono così fragili che si teme lo scoppio di un conflitto regionale. Intanto la comunità internazionale si è disamorata di Abiy, che è passato dal premio Nobel per la pace alle accuse di genocidio. Uno dei leader dell’opposizione tanzaniana, Zitto Kabwe, ha chiesto che gli venga ritirato il premio. L’Eritrea, invece, era già un paria, visto che Isaias Afewerki usa da decenni metodi dittatoriali.

Dal canto loro, Abiy e gli eritrei accusano gli Stati Uniti di Joe Biden di intromettersi in questioni interne e di essersi schierati con i tigrini. A quanto pare la diplomazia statunitense è riuscita a convincere il principe ereditario di Abu Dhabi Mohamed bin Zayed a interrompere il sostegno alle operazioni belliche di Abiy. In un’intervista al New York Times, il leader del Tplf ha svelato che in un primo tempo i tigrini erano stati sopraffatti dagli attacchi con i droni emiratini lanciati dal territorio eritreo. La possibilità che nell’ultima tornata di scontri non siano stati impiegati questi droni potrebbe spiegare in parte i successi delle Tdf.

Da sapere
Sul corpo delle donne

◆ Le donne pagano il prezzo più alto della violenza estrema nel Tigrai, scrive Fritz Schaap, che sul settimanale Der Spiegel firma un reportage dalla città di Shire. “Le strade sono costellate di carri armati, camion e autobus bruciati. Nei villaggi i sopravvissuti raccontano storie di saccheggi ed esecuzioni”. Schaap incontra Meaza (nome di fantasia), una donna scappata dalla località di Mai Kadra, teatro di un noto massacro, che è stata violentata ripetutamente e per molte ore da cinque soldati eritrei. Un’altra donna, Rozina, 28 anni, racconta di essere stata imprigionata da alcuni miliziani amhara, che l’hanno torturata con l’elettricità, picchiata con dei cavi e violentata. Quando è riuscita a scappare è stata catturata da soldati eritrei, che hanno a loro volta abusato di lei.

Mulu Mesfin, un’infermiera che a Mekelle dirige un centro che aiuta le donne sopravvissute agli stupri, dice di ricevere ogni giorno tra le dieci e le quindici nuove pazienti.

In tutti i centri antiviolenza della città sono state accolte negli ultimi mesi 1.500 donne, ma il numero reale di quelle che necessitano di assistenza potrebbe essere venti volte più alto. La metà delle donne in cura da Mulu è incinta e per abortire servono i farmaci. “Ma il governo non ci dà nessun aiuto”, lamenta l’infermiera.


Abiy ha anche cercato il supporto del Cremlino, inviando il suo ministro degli esteri a Mosca per incontrare la controparte russa, Sergeij Lavrov. Ma a quanto pare il ministro è tornato a mani vuote. La Russia infatti è alleata dell’Egitto, un paese che sta seguendo la situazione con attenzione dopo la costruzione in Etiopia della diga Grand ethiopian renaissance (Gerd). Il Cairo, che teme una riduzione del flusso del fiume Nilo, e Addis Abeba sono su fronti contrapposti. Gli egiziani hanno trasferito parte delle loro forze militari verso la frontiera con Gibuti. Il 5 luglio l’Etiopia ha annunciato l’inizio della seconda fase di riempimento della diga, facendo salire ulteriormente la tensione.

Anche il Sudan osserva con nervosismo quello che succede ai suoi confini. Il 22 giugno il primo ministro Abdallah Hamdok ha parlato delle tensioni “spaventose” che minacciano di mandare in pezzi lo stato sudanese. Secondo l’ong International crisis group la disputa di confine tra il Sudan e l’Etiopia sul triangolo di Al Fashaga potrebbe inasprirsi, sfociando in un conflitto aperto. Il timore è probabilmente eccessivo ma nel contesto di un’aspra guerra civile in Etiopia non è semplice ignorarlo.

Di fronte alla tempesta che si profila all’orizzonte la comunità internazionale, con l’Unione africana in testa, dovrà agire in maniera unitaria e contribuire alla creazione delle condizioni per una conferenza nazionale che affronti la storia profonda e complicata di questo conflitto. I tigrini, che hanno di fatto governato l’Etiopia per vent’anni durante il regime di Meles Zenawi, non possono sostenere di essere senza colpa.

Kjetil Tronvoll, docente di studi sulla pace e i conflitti dello Bjørknes university college in Norvegia, pensa che si debba fare pressione su Abiy perché accetti di aprire dei veri negoziati. “Il governo etiope deve ammettere la realtà. Ha subìto una sconfitta militare. Le Tdf controllano il Tigrai”. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati