La prima cosa che va detta sul disprezzo nei confronti dei grandi mezzi d’informazione statunitensi è che hanno fatto di tutto per meritarselo. E questo a causa dell’ostinata incapacità di fare il loro lavoro, che consiste nel mantenere l’indipendenza, informare i cittadini e dire le verità scomode per il potere. Mentre la sinistra da tempo ha i suoi buoni motivi per avercela con i mezzi d’informazione di centro, e la destra li ha detestati più che mai proprio quando facevano bene il loro lavoro, la rabbia che i moderati manifestano oggi nei loro confronti sembra un po’ una novità. In più questa estate molti ex giornalisti, esperti di comunicazione e reporter indipendenti li hanno criticati duramente.

James Fallows, giornalista di lunga esperienza, ha affermato che tre istituzioni – il Partito repubblicano, la corte suprema e la stampa politica generalista – “hanno dimostrato una catastrofica incapacità di ‘essere all’altezza del momento storico’ sotto le pressioni dell’era Trump”.

I grandi giornali e le televisioni vogliono darsi una parvenza di equità trattando il vero e il falso come ugualmente validi

Norm Ornstein, editorialista moderato, ha dichiarato che queste istituzioni “non hanno fatto autocritica, non hanno dimostrato nessuna intenzione di riflettere su quanto è stata irresponsabile, e continua a esserla, la gran parte della nostra stampa generalista”. La maggioranza degli elettori, aggiunge Ornstein, “non ha idea di cosa sarebbe un secondo mandato di Trump. Al contrario, dobbiamo sorbirci sempre le solite notizie da corse di cavalli sui sondaggi, mentre i comportamenti aberranti vengono normalizzati. E si continuano a trattare queste elezioni come semplici presidenziali, senza parlare del rischio che corre la democrazia”.

Di recente Jeff Jarvis, un altro ex giornalista e opinionista, lamentandosi per lo stato dei mezzi d’informazione negli Stati Uniti, ha scritto su X: “Quale ‘stampa’? Il New York Times, triste e vendicativo? Il nuovo Washington Post murdochiano? I giornali dei fondi speculativi, involucri vuoti senza contenuto? Una Cnn o una Npr ormai allo sbando? I media fascisti di Murdoch?”.

Queste voci critiche si stanno sollevando in risposta al modo in cui i colossi dell’informazione sembrano piegare i fatti ai loro schemi e ai loro obiettivi politici. In cerca di contenuti acchiappa-clic sui litigi tra personaggi pubblici, s’inseguono l’un l’altro in un accalcarsi continuo di notizie e nelle bolle che alimentano i pregiudizi. Vogliono darsi una parvenza di equità ed equilibrio trattando il vero e il falso, il normale e l’inaudito come ugualmente validi, e normalizzando i repubblicani, soprattutto Donald Trump, traducendo in frasi comprensibili le sue farneticazioni, mentre sorvolano sui crimini che ha commesso e sulle attuali menzogne e minacce. Oscurano continuamente storie importanti con conseguenze reali.

Non è una novità: in un’impietosa analisi della copertura giornalistica delle elezioni del 2016, la rivista specializzata Columbia Journalism Review aveva fatto notare che “gli articoli pubblicati in prima pagina dal New York Times in appena sei giorni sulle email di Hillary Clinton erano pari a tutti quelli sul suo programma usciti nei 69 giorni precedenti alle elezioni”. Ma la situazione da allora è anche peggiorata e molti addetti ai lavori ormai sono stufi.

A luglio alcuni cittadini hanno deciso di fare informazione sui social network a proposito del Project 2025, un programma di governo per un’ipotetica amministrazione di destra negli Stati Uniti curato dal centro studi conservatore Heritage Foundation, riuscendo con un lavoro superbo a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento, mentre la stampa si accaniva sull’età e sulla salute di Joe Biden.

È difficile essere contenti per il declino dei dinosauri del giornalismo: una stampa libera e cittadini ben informati sono entrambi fattori fondamentali per la democrazia

La Nbc ha raccontato questa iniziativa di informazione dal basso, ma lo ha fatto tenendo conto dei punti di vista di entrambi gli schieramenti politici, come fanno spesso giornali e tv generalisti, dicendo che il documento programmatico “è sostenuto da alcuni, che lo ritengono una guida per limitare il controllo dello stato, mentre è osteggiato da altri che lo considerano un piano d’azione per imprimere una svolta autoritaria agli Stati Uniti”. Ma in realtà niente indica che il progetto possa portare a un allentamento del controllo dello stato.

In un episodio ancora più scandaloso, il New York Times ha pubblicato un articolo in cui paragonava i progetti dei democratici e dei repubblicani per aumentare l’offerta abitativa, trattando il piano di Trump per la deportazione di massa dei migranti senza documenti come una risposta qualsiasi al bisogno di alloggi, più o meno efficace di altre (il fatto che una misura simile produrrebbe enormi violazioni dei diritti umani e potrebbe causare gravi disordini è stato trascurato, ma si è parlato di quanto alcuni di quegli stessi immigrati sono fondamentali nei cantieri edili).

Altre storie su questioni urgenti ricevono un’attenzione passeggera per poi essere abbandonate o vengono ignorate, come le minacce di Trump di smantellare gran parte della legislazione sul clima, uno dei risultati più importanti dell’amministrazione Biden. Il 17 agosto il Washington Post si è limitato a una critica piuttosto debole in un editoriale: “Sarebbe senza dubbio meglio per il clima se il presidente degli Stati Uniti riconoscesse la realtà del riscaldamento globale, invece che definirla una bufala, come fa Trump”.

La stampa ha accusato Biden, criticandolo per non aver saputo comunicare i suoi successi, ma il lavoro dei giornali dovrebbe essere proprio quello di raccontare l’operato di un presidente. Il Climate jobs national resource center riferisce che l’Inflation reduction act (la legge sulla riduzione dell’inflazione dell’amministrazione Biden) ha creato “un potenziale combinato di più di duemila miliardi di investimenti, un milione di megawatt di energia pulita e circa quattro milioni di posti di lavoro”, ma pochi statunitensi hanno un’idea dei risultati di questa misura o della solidità della situazione economica.

L’inverno scorso l’editorialista del New York Times Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, durante una puntata del podcast Daily Blast di Greg Sargent ha raccontato che quando scrive pezzi positivi sulle ricette economiche di Biden il suo caporedattore gli chiede: “Perché non moderi i toni?”.

Nel frattempo in un articolo accusatorio nei confronti di Kamala Harris intitolato “Quando il tuo avversario ti chiama ‘comunista’, forse non dovresti proporre il controllo dei prezzi?”, un editorialista del Washington Post ha scritto: “Fare la spesa costa di più e gli elettori vogliono dare la colpa a qualcuno. Allora i candidati presidenziali hanno deciso che bisogna prendersela o con l’amministrazione Biden o con l’ingordigia delle grandi aziende. Harris ha scelto quest’ultima”. Sarebbe facile dimostrare che i grandi gruppi economici hanno aumentato i prezzi e stanno incassando enormi profitti, ma i fatti non contano molto per questo genere di giornalismo.

È difficile essere contenti per il declino dei dinosauri dell’informazione: una stampa libera e cittadini ben informati sono entrambi fattori fondamentali per la democrazia. Le alternative alle grandi testate giornalistiche non sono in grado di raggiungere un numero sufficiente di lettori e ascoltatori, anche se il giornalismo investigativo senza scopo di lucro di ProPublica e le riviste progressiste come New Republic e Mother Jones stanno producendo buona parte dei migliori reportage e analisi in circolazione.

All’inizio dell’anno, quando la senatrice repubblicana dell’Alabama Katie Britt ha contestato con i suoi modi eccentrici il discorso sullo stato dell’Unione di Biden, è stato Jonathan Katz, un giornalista indipendente, a rivelare su TikTok che le sue obiezioni contenevano diverse falsità. Le grandi testate hanno ripreso la notizia da lui: chissà, mi sono detta, cosa stavano facendo quella sera le loro redazioni formate da centinaia di persone.

Tanti bravi giornalisti hanno lanciato delle news­letter indipendenti che si occupano di tecnologia, informazione, politica, clima, diritti riproduttivi e ogni altro argomento possibile, ma hanno una portata troppo limitata per potersi sostituire ai grandi network. Un’eccezione notevole è la storica Heather Cox Richardson, che con la sua newsletter e il suo seguito su Facebook raggiunge un pubblico solo di poco inferiore a quello del Washington Post. L’enorme successo delle sue riflessioni e delle sue rassegne stampa sobrie e storicamente fondate dimostra che c’è fame di vera informazione. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati