D al 4 novembre 2020, quando è cominciata la guerra in Etiopia, la provincia del Tigrai è rimasta isolata dal resto del mondo. Il governo federale aveva un obiettivo: eliminare i vertici del Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), accusati di ribellione per aver rivendicato l’autogoverno della provincia, come previsto dalla costituzione, e di aver commesso soprusi nei 27 anni in cui hanno amministrato il paese.
L’apparato politico e militare tigrino è stato schiacciato dall’intervento congiunto dell’esercito federale, delle milizie di etnia amhara e delle truppe inviate dall’Eritrea. La guerra convenzionale si è conclusa il 28 novembre con la conquista di Mekelle, il capoluogo regionale. Molti tigrini, sia civili sia combattenti delle forze locali, non si sono arresi e si sono organizzati per contrastare “l’invasione” con la loro arma secolare: la guerriglia.
Nonostante le difficoltà di accesso a questa regione, sono comunque trapelate delle notizie, che sono state poi confermate da mezzi d’informazione internazionali, dalle agenzie delle Nazioni Unite, da autorevoli ong e dalle potenze occidentali. Si sa che fin dall’inizio la guerra è stata estremamente violenta. Le truppe eritree, le forze amhara e l’esercito etiope hanno bombardato centri urbani e compiuto massacri, anche di religiosi. Nell’ultimo di cui si ha avuto notizia, l’8 maggio, sono stati uccisi 19 civili a nord di Mekelle, secondo il Guardian. Un sito etiope precisa, nomi alla mano, che tra le vittime c’erano nove bambini di meno di dieci anni e un neonato. A questo si aggiungono esecuzioni sommarie e stupri, spesso collettivi e compiuti davanti a familiari, usati come arma di guerra. Secondo l’Onu più di ventimila persone avranno bisogno di cure nei prossimi mesi. I campi che ospitavano centomila profughi eritrei sono stati distrutti. Nella prima fase della guerra le truppe regionali tigrine si sono progressivamente ritirate. A parte il massacro compiuto all’inizio di novembre a Mai-Kadra contro civili amhara, non sono emerse altre prove tangibili di gravi abusi compiuti da tigrini.
Al terrore sfrenato si sono affiancati i saccheggi sistematici. Intere fabbriche sono state smantellate e le apparecchiature portate via dal Tigrai. Sono stati portati via i veicoli funzionanti, le finestre delle case e perfino gli utensili da cucina. Secondo un responsabile dell’Onu, l’80 per cento dei raccolti è stato saccheggiato e il 90 per cento del bestiame è stato abbattuto o rubato, compresi i buoi usati per il lavoro nei campi.

L’obiettivo ufficiale di Addis Abeba è mettere fuori gioco il Tplf, ma pochi lo considerano possibile. Così fa pagare a tutti i tigrini, dentro e fuori la regione, le spese della guerriglia e del potere che la loro élite ha esercitato per quasi trent’anni. I tigrini sono in ginocchio e non hanno la possibilità di risollevarsi. È una guerra civile, di vendetta, interetnica, territoriale, internazionale. Una guerra di una violenza “non ordinaria”. Nel Tigrai si fa terra bruciata. Secondo Medici senza frontiere, l’87 per cento delle infrastrutture sanitarie è stato saccheggiato, vandalizzato o distrutto. All’inizio di gennaio del 2021 su 296 ambulanze ne funzionavano solo tredici. Per le scuole è stato lo stesso. Molti impianti di approvvigionamento idrico sono stati danneggiati in modo irreparabile. Le attrezzature agricole sono state distrutte. I mezzi di sussistenza e di produzione sono stati deliberatamente colpiti.
Le autorità della regione Amhara hanno annesso le propaggini occidentali e meridionali del Tigrai senza basi legali, sostenendo che erano state incorporate ingiustamente nella regione ai tempi dell’ascesa al potere del Tplf. In seguito hanno imposto una “pulizia etnica”: centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire, sia chi abitava lì da decenni sia chi ci si era stabilito di recente.
La crisi umanitaria si aggrava
La guerra non si ferma e questo ostacola le attività umanitarie. Secondo il World food programme (Wfp), più del 90 per cento dei sei milioni di tigrini ha urgente bisogno di aiuti alimentari. Gli sfollati interni sono almeno 1,7 milioni. Secondo l’Onu, le forze militari bloccano la distribuzione degli aiuti. Ambulatori medici che avevano riaperto sono stati saccheggiati di nuovo. Le autorità tigrine ad interim, nominate da Addis Abeba, confermano che agli agricoltori è stato impedito di coltivare la terra e di ricevere le sementi. L’Unione europea denuncia l’uso degli aiuti umanitari come “armi di guerra”. Governi e donatori continuano a chiedere senza successo il “libero accesso” alle popolazioni colpite. La crisi umanitaria continua ad aggravarsi, così come le violazioni dei diritti umani. Qualsiasi inchiesta indipendente confermerà crimini di guerra e contro l’umanità. In Etiopia alcuni parlano di “genocidio”, usando il termine in un’accezione più ampia di quella accettata, mentre all’estero c’è chi denuncia “atti di genocidio”.
Intanto l’Etiopia si disgrega. In Oromia, la regione più ricca e popolosa del paese, l’avanzata dell’Esercito di liberazione oromo (Ola) è impressionante. Tutti i giorni arrivano notizie di “scontri intercomunitari”. Le elezioni del 21 giugno, su cui il primo ministro Abiy Ahmed fa affidamento per ottenere una legittimazione, non saranno credibili. Addis Abeba nega ostinatamente quello che succede nel Tigrai. Tutt’al più alcuni ammettono in privato che le “difficoltà” sono gli inevitabili “effetti collaterali” della guerra.
◆ La commissione etiope per i diritti umani, fondata nel 2004, non è mai stata indipendente dal governo di Addis Abeba, racconta The Guardian. Le cose sono cambiate nel 2019, quando a guidarla è stato chiamato l’avvocato Daniel Bekele, ex prigioniero di coscienza, che quell’anno è tornato nel suo paese da New York, dove aveva lavorato per Amnesty international e Human rights watch. In Etiopia aveva scontato due anni di carcere per aver criticato il modo in cui si erano svolte le elezioni del 2005. Negli ultimi due anni, racconta il quotidiano, Daniel Bekele ha rafforzato le capacità investigative e l’autonomia della commissione, cercando di trasformarla in un vero organismo di sorveglianza e controllo del potere. E così sono usciti i primi rapporti critici verso i funzionari del governo e le forze di sicurezza. Per esempio, la commissione ha pubblicato un rapporto che avvalora i risultati di un’inchiesta di Amnesty su un massacro di civili nella città tigrina di Axum, confermando il coinvolgimento delle truppe eritree (che il governo etiope negava fossero presenti sul territorio nazionale). Il rapporto ha sollevato un polverone ed è stato criticato dai sostenitori dei governi etiope ed eritreo.
Intanto l’Etiopia si prepara a tornare alle urne il 21 giugno per le elezioni legislative e amministrative, già rinviate due volte. “Il premier Abiy Ahmed”, scrive The Continent, “spera in un’ampia vittoria che lo faccia apparire come il leader democratico di un paese unito. Ma non si può organizzare il voto nel bel mezzo di un conflitto e di una carestia autoinflitta. Le elezioni rischiano di creare nuove divisioni, non solo nel Tigrai”.
Il potere federale è paralizzato. Abiy è prigioniero di una retorica messianica che lo allontana dalla realtà. Di recente ha detto che supererà ogni ostacolo per condurre l’Etiopia alla prosperità, come Mosè portò gli ebrei nella terra promessa. È ostaggio delle forze che lo sostengono: gli estremisti amhara, quella parte dell’élite oromo che ha fatto man bassa del potere federale e dell’Eritrea. Tutti si sono alleati contro il Tplf, ma le loro strategie sono divergenti.
La cosa più inquietante è che nessuno sembra ragionare, anche tra gli intellettuali. La polarizzazione etnica è così forte che non emerge nessuna figura abbastanza credibile e autorevole da essere ascoltata, se mai dovesse lanciare l’allarme o proporre una via d’uscita.
Di fronte alle pressioni esterne, Addis Abeba e Asmara si atteggiano a modelli di sovranità nazionale. Tuttavia il bisogno di investimenti stranieri per rilanciare la crescita, le relazioni delle élite etiopi con l’occidente, a partire dagli Stati Uniti, e il fatto che siano state gestite da una cerchia ristretta di persone espongono i dirigenti etiopi a molte pressioni esterne. Ora bisogna che queste pressioni aumentino. ◆ gim
René Lefort è un ricercatore franceseindipendente, esperto della regionedel Corno d’Africa.
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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati