Papà e io siamo seduti negli stessi posti che scegliamo sempre, quelli lerci blu e arancione a macchioline verdi sul davanti. C’è spazio in abbondanza per il suo ginocchio, spazio contro la parete per il suo bastone e abbastanza spazio perché io possa incrociare gambe e braccia, appoggiare la testa al finestrino rigato dell’autobus e ignorarlo. Quando l’autobus improvvisamente sterza, mi stacco un’altra pellicina dalle dita, faccio schioccare la gomma e curvo le spalle avvicinandole ancora di più alle orecchie.

“Adanna?”, dice papà.

Questa furia è così nuova per me. Non l’ho mai custodita in questo modo. Non sono mai stata così eccitata dal gusto del sangue. Penso sia l’unica cosa che m’impedisce di tremare

Lancio una vaga occhiata nella sua direzione. Mi accerto che sia quasi del tutto sfocato prima di sospirare: “Sì?”.

“Parlavo con mamma stamattina e io – noi – siamo tutti e due così orgogliosi di te, per aver deciso di partecipare oggi. Così orgogliosi. Certo, lo so quanto possono fare paura i dottori, però questo è un buon primo passo, il primo di molti passi, ma con la grazia di Dio…”. Fa un respiro per stabilizzarsi. “Ce la faremo, vero?”.

Faccio un infinitesimale cenno di assenso. Papà aspetta che io borbotti “Sì”. Penso: se devo passare un altro secondo ad ascoltarlo morirò, letteralmente, e poi il mio cadavere salterà su dal pavimento e si ucciderà di nuovo.

“Adanna kamsiyochukwu”, ripete, tutto cuore, tutto tremolio. “La mia ragazza speciale”.

Io picchietto ogni dente con la lingua e guardo le sue sopracciglia. Il loro scarabocchio ribelle, i germogli grigi.

In questi giorni, il suo modo di dire il mio nome mi manda su tutte le furie. La mancanza di esitazione per nascondere la vera esitazione. Come quando ti tuffi in piscina.

Mi passa in rassegna: la mascella che mastica, le palpebre a mezz’asta, il mio modo di tenere il collo.

Kedu?”, dice, sommesso come un topo. Penso a ceppi da macellaio, affilacoltelli, trappole al for­maggio.

“Sto bene”, dico. Non voglio parlare igbo con lui.

“Allora perché hai l’aria così arrabbiata?”. Mi squadra la faccia, gli occhi annebbiati, la bocca come un ombrello all’ingiù. “La mia ragazza ombrosa”. Mi dà un colpetto alla gamba e fa una smorfia per cercare di farmi ridere.

“Non sono assolutamente arrabbiata”. Mostro i denti accertandomi che possa vedere ogni incisivo e canino. “Questo è un sorriso, tipo”.

Gli occhi di papà si spalancano. “Oooooh”, dice, con la voce gorgheggiante di un fantasma dei cartoni animati.

Smette subito quando la mia mascella si serra ancora di più.

Questa furia è così nuova per me. Non l’ho mai custodita in questo modo. Non sono mai stata così eccitata dal gusto del sangue. Penso sia l’unica cosa che in questo momento m’impedisce di tremare.

Mamma dice che papà me le fa passare tutte. Il brontolio del mio stomaco e la gomma in tasca. Le spalle curve e il bastoncino da masticare ata uhie. I piccoli crateri autoinflitti sulle mie cosce.

(Un’adolescente è una mina terrestre).

“Possiamo andare a cena dopo l’appuntamento con il dottore”, suggerisce papà. “Cosa avresti più voglia di mangiare in questo momento?”.

Le parole in igbo suonano come una ninna nanna. Come una cosa che amavo tanto tempo fa. Come una nota tenuta troppo a lungo. Mi schiaccio di lato, il naso come un grugno di maiale contro il finestrino, e vorrei avere il verme solitario.

“Già mangiato”, dico.

Tutti e due notiamo l’assenza di un riferimento temporale.

Fuori ci sono ragazzi che camminano, trasudano spavalderia. Occupano tutto il marciapiede. Fianchi bassi, gambe larghe, alla ricerca di quello che il mondo gli deve. Copie carbone che sfumano l’una nell’altra. Felpe grigie con il cappuccio, tute grigie contro un cielo grigio. Capelli leccati all’indietro, gel di saliva, rasatura laterale. Li guardo ridere in sincrono, le bocche sono ovali perfetti.

L’autobus rallenta e si ferma pian piano disperdendoli come piccioni. Nello spazio che si è creato, due donne manovrano un passeggino. Pagano il biglietto all’autista e si spostano lungo il corridoio, fermandosi quando arrivano ai nostri posti e aspettando che papà sposti la gamba. La donna più anziana ha i capelli a cavatappi; riesco quasi a vederli vibrare d’impazienza. Sorrido con aria di scusa e spingo papà, forte. Lui si sposta a fatica

Si siedono abbastanza vicine per sentire il minisermone di papà.

Quella di papà è una rapsodia su Dio. Su come non ci dà mai più di quanto possiamo sopportare e su quanto mi ama. Lui sa cos’è la paura, sottolinea papà. Sa che anche Gesù ha pianto, per non sottrarsi ai sentimenti, per non essere fatto di ghiaccioli e coltelli.

“Mmmmm”, dico io. “Sì, lo so, giuro, sto ascoltando. Amen amen amen”.

A mio padre piaceva credermi, perfino quando c’erano poche possibilità che fossi sincera. Cecità selettiva, la chiamava mamma. Favoritismo, lo chiamava mio fratello. Io lo chiamavo essere amata.

Negli ultimi tempi ha deciso di non farsi imbrogliare dalle mie bugie e io sto imparando a detestarlo quasi quanto me stessa.

Lui mi guarda a lungo. “Ka’idi nwata ina-enwe anwuli shinne”, sospira. Eri una bambina così felice.

Io strizzo lentamente gli occhi.

Ogni volta che l’autobus si muove, le nostre spalle si toccano. Penso al veleno, al dolce sfrigolio della carne che cuoce, a graffiarmi e strapparmi via la pelle, deliziandomi del rosa.

Penso a un’esplosione.

La mia borsa di scuola è sul pavimento dell’autobus e la mia gamba ciondoloni continua a sbatterci.

“Quando raccontate una storia”, disse la signorina Clarke alle elementari, “cominciate con un’azione. Fate vedere, non raccontate. Cominciate con una tazza vuota e riempitela. Dal noto all’ignoto”.

“Quando raccontate una storia”, disse la signorina Clarke alle elementari, “cominciate con un’azione. Fate vedere, non raccontate. Cominciate con una tazza vuota e riempitela. Dal noto all’ignoto”

“Inventate parole”, aveva detto Clarke negli anni successivi. “Lewis Carroll ci ha dato la parola chortling, ridacchiare sbuffando”. Dentro di me ribatto: “Ci ha dato anche galumphing, galoppare trionfalmente”. Quando a scuola abbiamo fatto Alice, mi piacevano la bottiglia e la torta. Com’era facile per lei crescere e rimpicciolire con un semplice “mangiami” e “ bevimi”. Mi piaceva l’idea di essere tanto piccola da dormire nella casa di una lumaca, l’idea di essere anche tanto grande da spaccare i gusci da sola. Mi piaceva l’idea di cambiare forma, di essere invisibile e sorridere.

“Raccontate la vostra verità”, aveva detto l’ultimo anno. “La vostra verità speciale”.

Ok. Comincerò da water e lavandino e schiaffo e odore di detergente.

No. Prima.

Comincia da Adanna, comincia dall’inizio. Comincia da dieci dita delle mani e dieci dei piedi, la meraviglia d’imparare le cose per la prima volta.

No, non riavvolgere tanto. Comincia da…

Comincio dai quattro anni.

Arrivo qui con i denti da latte. Il primo sapore dell’Irlanda è sale e sciroppo frizzante, i Topolini di plastica che mi ficcano in mano dallo sportello del take away.

Ci fanno segno di ripartire, e la stella marina della mia mano guizza una, due volte in segno di risposta. È il crepuscolo, e il cielo è soffice. Mia madre dice: “Non mangiare troppo in fretta”. Io rallento per non strozzarmi, ma i miei occhi pensano solo a ingozzarsi. Il freddo, le sciarpe, la pelle lattea. Le mie prime stelle. Passiamo sotto le gallerie, e ogni secondo che siamo al buio trattengo il respiro.

Il primo giorno di scuola, battito di ciglia alla Bambi, il fruscio uno-due sul tappeto di poliestere. La voce di papà mentre mi mordo il pollice. Le sue parole: “Comportati bene, fai la brava”.

In piedi davanti alla classe, alzo la testa e guardo le ventidue paia di occhi di marmo che ricambiano il mio sguardo.

Il mio sorriso tremulo quando mi presento.

Uno stacco. La mia maestra che ride, i denti sfavillanti alla luce come una falce.

Qui c’è qualcosa che non va e non so ancora capire cos’è. Con un sorriso mi chiede di ripetere il mio nome. Lo faccio. Lei ride di nuovo.

La guardo mentre dà spettacolo srotolando della carta, scrivendo a stampatello le lettere a caratteri cubitali e facendo una pausa a effetto tra l’una e l’altra. Quando mi siedo, fissa con il nastro adesivo il lungo pezzo di carta davanti al mio banco e sorride di nuovo. “Solo per non sbagliare”.

Comincia quando ho quattro anni. Comincia nei mesi freddi. Comincia con il sudore che puzza di spezie. Con il pranzo al sacco di riso jollof nel contenitore macchiato. Le tre, quando papà mi viene a prendere. Lui che mi chiede: “Non avevi fame?”. La preoccupazione nei suoi occhi. Stare seduti sul bordo del marciapiede d’inverno guardando il tramonto precoce e mangiare cereali arancioni prima della lunga camminata per tornare a casa.

È così che comincio a imparare che la fame è controllo, è una gentilezza, è solo una sensazione che passa. L’asfalto sotto le mie gambe incrociate è gelato, ma io sto così calda nel mezzo. “Ho giocato ad acchiapparella per tutta l’ora di pranzo”, dico. “Mi sono scordata!”.

Io so impormi di stare zitta. Io capisco come funzionano le cose, papà no. Lui crede nella gentilezza delle persone, io credo nell’avere paura di loro. Io credo nella sacralità dell’imbarazzo e nella nausea di farsi notare come una mosca nel latte. Io lo guardo e mentalmente gli ordino di stare zitto

Sono una bimba ciambella, tutta zucchero con un grande buco al centro. Quando papà distende le sopracciglia aggrottate, si rallegra della mia popolarità e mi tira le trecce con le perline, sorrido. È una sensazione così bella.

Le mie mani da bambina tengono il suo cuore, lo proteggono dal dolore con le palme che sono la metà del normale. Bun go barr. A rovescio. Un ribaltamento nell’ordine delle cose. Questa sensazione potrebbe sfamarmi fino al prossimo inverno. Perfino più a lungo.

Ho tredici anni.

A papà le cose non vanno buone. “Non vanno bene”, dice mamma. Vanno bene, ripetiamo noi. La grammatica è una cosa a cui aggrapparsi, una cosa che può darci stabilità in questo mondo vorticoso.

Durante il riposino del pomeriggio, fisso il grande soffitto bianco e gli adesivi con i versetti della Bibbia. Li studio attentamente. Mamma ci tiene alla lingua che usiamo. Il pidgin è vietato, ma dire “Il diavolo è un bastardo” nei momenti di grande tensione è consentito. Perciò le cose che diciamo sono “A papà le cose non vanno buone – bene. La signorina Clarke ha detto che il mio biglietto non era firmato. Dov’è la mia cravatta? Per favore, tira su tuo fratello da terra. Vieni a pregare. Adanna, ti avverto e BASTARDO”.

Non mangio da quattro settimane. Prendo i miei panini e ci faccio missili da scagliare dietro il grande cespuglio nel giardino dei vicini. Sparo stelle di lattuga e maionese e buon prosciutto irlandese. Torno a casa con la fame di fare qualcosa di sbagliato, e la sensazione sazia del vuoto. La pura sensazione del controllo.

Mamma mi sorprende il giorno prima della GRANDE VISITA. Sentiamo parlare della grande visita da settimane. Papà potrebbe riuscire a tornare a casa, potrebbe riuscire a respirare normalmente, ma solo se preghiamo ogni mattina. Solo se ci crediamo tanto da tremare. La magia è malvagia, ma questa è sacra. Ora quando non mangio sento che Dio mi ama di più.

Mamma si rivolge a Dio quando mi sorprende.

Chineke! Perché mi hai dato questa figlia malvagia? Adanna? Adanna? Adanna? Quante volte ho chiamato il tuo nome?”.

Si tira il lobo dell’orecchio, le nocche sbiancate.

“Vieni dal diavolo? Sei una strega? Sei una bastarda?”, urla. La voce di mamma è così alta da sembrare una cosa fisica, che mi spinge dentro casa insieme alle sue mani furibonde.

“Lo vorrei, sto letteralmente pregando Dio di esserlo”. Provo a essere sarcastica, ma quando le rispondo strillando la mia voce è più addolorata.

Quando mi dà uno schiaffo, mi sento piena.

“Mi sveglio – ogni mattina, ogni benedetta mattina – per pulire, cucinare, prendermi cura di voi figli. Ogni mattina! Con i soldi che non abbiamo. Tu nemmeno lo sai cosa faccio per te, cosa – le si spezza la voce – cosa ho cercato di fare per te”. Mamma dà un colpetto con il dito alla scatola delle donazioni sul piano della cucina. Indica un viso che somiglia al mio. Ripete la frase trita e ritrita, in sincrono con ogni mamma irlandese prima di lei.

“Ci sono bambini che muoiono di fame in Africa…”.

“Bene, allora vorrei essere in Africa!”, le rispondo urlando.

La lite dura un’ora buona. La ragazza uragano e sua madre tsunami. Mi chiudo a chiave in bagno e faccio finta di morire. Sto seduta in silenzio finché non si convince che mi sono uccisa. Io penso di farlo per dispetto invece che per la normale disperazione.

Davide Bonazzi

Picchia sulla porta come se implorasse che le nocche delle sue mani diventassero una poltiglia.

Quando finalmente apro, lei è tesa e silenziosa, gli occhi come una carta di caramella stropicciata. Vuoti e troppo brillanti.

I nostri volti sono specchi. L’odio che rimbalza tra le due superfici ancora e ancora, raddoppiando nella luce del corridoio.

Entriamo in auto in silenzio. Io affondo il viso nei capelli del mio fratellino. Mi tappo il naso e ricordo a me stessa come si mente.

Quando entro nella stanza sterile, papà e io ci guardiamo. “Kedu?”, chiede. Mi ricordo che devo saturare la voce di miele e di luce, ricordo la mia insegnante che dice: “Ad Adanna piace raccontare storie”.

O di mma!”, cinguetto, “sapevi che Caoimhe mi ha invitato ad andare a nuotare con lei e le altre ragazze questo fine settimana? Però mamma non vuole che vada. Anche se le ho detto che andrà tutto bene!”.

“Non sapevo neppure che sai nuotare!”.

“Sono un po’ Mami Wata”, ammicco.

Papà ride e ride. Io mi giro gli anelli e mangio il sale dal pacchetto sul tavolo.

Quando papà mi chiede della scuola, gli racconto la mia nuova scoperta di biologia: le meduse in realtà sono invertebrati. Solo nuvole che fanno male e pungono ma non hanno spina dorsale. Attaccano quando sono sfiorate, assorbono acqua marina e rimangono sempre, sempre a galla.

Vado a lezione di nuoto ogni settimana. La prima volta, sto in piedi sul bordo della piscina, in costume da discount. Le punte dei piedi si arricciano intorno all’orlo come patelle, le ginocchia scure serrate.

“Salta dentro, Adanna!”, mi esorta Caoimhe. Lo pronuncia A-day-nah. “Non pensarci!”.

“Caoimhe! Vuoi ammazzare questa povera ragazza?”, dice Kate. “Sicuramente non ce l’hanno l’acqua, in Africa!”,

“Kate!”, dice Caoimhe, ma la sua risata squilla fino al soffitto.

Nella piscina, galleggio. Non affondo; non penso neppure di poter affondare. Non penso in assoluto. Aspetto fino all’ultimissimo frammento di un secondo, all’ultimissima scheggia di un minuto, e apro la bocca. Più grande della crepa nell’asfalto. Più grande della tazza del bagno. Più grande delle gallerie da cui sono uscita. Grido, aspettando le inevitabili bolle.

In quel momento, giuro, mi sento un fulmine.

Nella stanza di ospedale, ogni volta che racconto una storiella mi gratto il naso fino a scorticarlo. In questa vita circense d’insoddisfazione, di camminate sul filo senza rete, di orari disordinati e suoni fragorosi – beep! clang! Infermiera! – divento bravissima a recitare. Mangio le fette di arancia che mi offre papà, il succo mi sgocciola dal mento. Inghiotto quasi la buccia per l’impazienza. Gli faccio dono di una splendida storia, una splendida vita, e faccio in modo di guardare solo il suo largo sorriso.

Davide Bonazzi

Papà vuole darmi un buffetto sulla guancia con la sua zampa da orso, invece mi prende sull’orecchio. Ridacchio, fingendo che abbia colto il bersaglio. Mi strofino la gola e ringrazio il pubblico per essere venuto allo spettacolo.

[Fast forward]

Ho quindici anni all’ospedale, collassata dopo un altro giorno di carestia.

“Non iperventilare”, dice il dottore, severamente, prima di premermi sul polso un ago rovente. Guardo la punta aguzza bucarmi la pelle.

“Sopportate bene il dolore”, dice. Lo dice al plurale. Lo capisco dal suo modo di piegare la testa verso le mie treccine quando fanno shhh sulle coperte. Il mio sangue si gonfia nella siringa, il rosso un color rubino crimine di guerra. Affondo nei cuscini bianchi e penso a papà e a frutta aspra.

Più tardi, quando la morfina mi sta rendendo informe, giaccio sul soffitto guardando il letto in basso. Dimentico cosa significa essere umana e ne sono grata.

Sono il rubinetto gocciolante. Sono l’inclinazione del tappeto. Sono la porta scura, massiccia, che non lascia filtrare la luce. Sono gli aromi che bruciano. Sono i ritagli di unghia. Sono le mani con una ragnatela di colla e il pasticcio che hanno fatto in classe. Sono il colore monocromatico della stanza, il bordo della padella da letto, la linea piatta fluorescente.

Sono l’aereo che vola basso fuori dalla finestra. Sono i gomiti puntati verso il cielo che cullano la testa ricoperta di soffice peluria nella V della clavicola. Sono il sudore che si raccoglie in quella valle. Sono il sudore che gocciola sul pavimento pulito. Sono il momento prima dello schianto.

(Un’adolescente è un conto alla rovescia).

Nell’attimo prima di addormentarmi, premo una mano sul mio addome alimentato a forza e penso all’ultima visita medica di papà. A come l’infermiera ha alzato le spalle, impotente. Alla morsa che mi ha stretto lo stomaco.

Sono triste.

Sono sola.

Ora ho sedici anni sull’autobus con mio padre. Il mio corpo è una fisarmonica chiusa, piccola e senza aria.

Stiamo andando da un dottore speciale. Il dottore speciale mi dirà cose che faranno piangere papà. Aprirà la mia testa come un frutto dell’albero del pane, la servirà come un piatto speciale e mi guarderà mangiarne ogni pezzetto.

L’autobus è una sauna, così quando salgono le due donne con il passeggino l’aria fredda mi sfiora il viso.

La donna più anziana con i capelli a cavatappi è morbida e rotonda, una pagnotta ben impastata. Si sistema in un posto diagonale rispetto al nostro e quella più giovane, probabilmente sua figlia, le si siede accanto. La figlia ha quasi la mia età, penso. Tiene in braccio un bambino grande quanto una scatola da scarpe.

Quando i nostri occhi s’incrociano, le sorrido.

Quando papà mi chiede della scuola, gli racconto la mia nuova scoperta di biologia: le meduse in realtà sono invertebrati. Solo nuvole che fanno male e pungono ma non hanno spina dorsale. Attaccano quando sono sfiorate, assorbono acqua marina e rimangono sempre, sempre a galla

La voce di papà riecheggia mentre dice all’autista dove farci scendere. “Poco prima di SuperValu, per favore!”.

In realtà ha urlato, ma l’autista fa un cenno di assenso perché ci conosce. È la nostra strada di casa, sono i nostri posti, e l’equilibrio di papà ormai è nelle mani degli sconosciuti.

La voce risuona ancora nelle mie orecchie. Odio la contrazione che sento dentro, il pacciame della vergogna. Io so impormi di stare zitta. Io capisco come funzionano le cose, papà no. Lui crede nella gentilezza delle persone, io credo nell’avere paura di loro. Io credo nella sacralità dell’imbarazzo e nella nausea di farsi notare come una mosca nel latte. Io lo guardo e mentalmente gli ordino di stare zitto. La signora all’interfono dice la prossima fermata, la ripete in gaelico.

Quando la donna ci chiama negri la prima volta, strizzo gli occhi e sbircio dietro di me. Poi guardo papà. Lui non ha reagito, quindi ignoro me stessa. Poi lo dice di nuovo, questa volta in tono più duro. La g a doppia canna, il colpo basso della r dura. Lascio che il senso mi penetri lentamente e strizzo forte gli occhi.

Non è vero, decido. Nella vita vera la gente non fa queste cose. Guardo lo schermo della videocamera di sicurezza. Cerco la sagoma da scarabeo di un microfono, poi alla fine ricambio il suo sguardo.

“La vostra assoluta sfacciataggine”, comincia. “Pensare che potete venire qui e mettervi a strillare nell’autobus, come se non aveste un pulsante per prenotare la fermata davanti a voi e un bimbo piccolo accanto! Non ve ne rendete conto da soli?”.

Io guardo lei, guardo la figlia, guardo il bambino con le bollicine del latte che si raccolgono nell’angolo della bocca a forma di cuore. Raffinati spettatori.

Ho la bocca così secca che la gomma volteggia come un cespuglio rotolante. Ogni parola che ho mai conosciuto evapora.

“Negri maledetti”, borbotta.

Papà non batte ciglio. Guarda fisso davanti a sé, il volto un lago stagnante. I miei occhi schizzano tra loro due come una palla da tennis, e ogni volta che lo guardo mi sento stordita dalla rabbia. Mi prudono le mani per la voglia di mollare uno schiaffo, di fare da scudo. Ho la nausea.

Sedici anni, penso. Per sedici anni me la sono cavata.

“Non voleva essere scortese”, comincio esitante. “È solo che ha il bastone e…”.

Lei taglia corto con un “Non m’importa”. Torna a voltarsi verso quell’orribile figlia, verso il nipote idiota.

Mi dimeno sul sedile per guardare tutti gli altri, vedo i loro occhi che studiano il ragno nell’angolo, il rosso del pulsante, i bimbi sorridenti della pubblicità. “Partecipa al viaggio con noi” è il testo sgargiante schiaffato sopra il viso sorridente di una donna scura.

L’ingiustizia mi brucia dentro. Come l’imbarazzo di essere presa a scuola per ultima. Come i soprannomi alla scuola media. Come quattro, come tredici, come quindici.

Questa rabbia, questa rabbia. Così pesante, come una pietra sommersa. Così rovente che sembra amore. Mi piace la sua mole. Potrei prenderla a mazzate se ci provassi. Voglio la poltiglia del contatto facciale, voglio un tonfo sordo. Mi sposto nel sedile per affrontarla, un ringhio sulle labbra. Il pendolo oscilla, il peso sul fulcro si sposta, la mia bocca si apre…

Le porte si aprono e l’aria irrompe nella vettura. Scendere. Battaglia finita prima di cominciare.

Guardo la donna attraverso il finestrino mentre l’autobus riparte.

Lei non si gira neppure.

Mi volto verso papà, verso la dolcezza della sua mascella, la terra dei suoi occhi. Quante volte ci vogliono prima di riuscire a fingere di non vedere? Quante volte, prima che sia tutta foschia? Non voglio saperlo. Ho paura che lo scoprirò comunque.

Mi lascio ricordare che lo amo ferocemente.

Io a sedici anni, papà che mette un piatto davanti alla mia porta. Io a tredici anni, papà che mi mette in mano una fetta di arancio. Io a quattro anni, papà che trasforma un utensile in un aeroplano, avvicinandolo rapidamente alle mie labbra. Ricordo come la mia bocca istintivamente si apriva.

Forse l’amore è chiudere la bocca intorno a un cucchiaio.

Il cielo è un mulinello di nuvole fra cui il sole s’infila a fatica.

Mi sento sciogliere per la prima volta da anni. Sento tutta l’espansione del mio cuore, sento il dolore nelle otturazioni dei denti. Sento il pugno intorno alla gola che si allenta. Lascio che le mie mani tornino all’ordine naturale delle cose e permetto a me stessa di appoggiarmi a lui.

Permetto a me stessa di ascoltare il suo cuore che batte bene da solo.

“Magari per cena potremo prendere una pizza?”, riflette papà.

L’elasticità dei nostri respiri, come si sollevano in tandem.

“Magari invece pesce fritto e patatine?”, rispondo.

[Cambio di scena] ◆

Rere Ukponu è una scrittrice di Dublino. Studia medicina allo University college di Cork. Ha scritto per The Irish Times e Metro Éireann. Questo racconto è uscito su The Stinging Fly con il titolo Famine days. Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati