Di fronte alla crisi geopolitica e climatica globale, la questione della sovranità è sulla bocca di tutti. Ogni paese sta cercando di riprendere il controllo del suo destino, delle forniture e delle catene di produzione. Si parla di sovranità europea, di federalismo sovranista o di sovranismo federale. Una contraddizione in termini? Non necessariamente, ma bisogna mettersi d’accordo sul significato delle parole. Per evitare le trappole del nazionalismo è essenziale ripensare la questione del federalismo, che deve diventare uno strumento al servizio del benessere sociale, fiscale e ambientale, e non più un modo per ridurre il potere degli stati, fare dumping (esportare merci a prezzi molto più bassi di quelli praticati sul mercato interno) e alimentare la competizione tra i territori.
Facciamo un passo indietro. Ai suoi albori l’integrazione europea s’ispirò in parte alle idee conservatrici e neoliberali care a Friedrich von Hayek e alla scuola di Friburgo. Dopo il potere statale illimitato e gli eccessi devastanti del fascismo, del bolscevismo e del nazismo, l’obiettivo era inquadrare la sovranità nazionale e promuovere la ricostruzione dell’Europa sulla base dello scambio economico, senza che una qualsiasi maggioranza politica fosse in grado d’interromperla bruscamente. Il ricordo degli anni trenta, quando la democrazia rappresentativa aveva mostrato i suoi limiti e l’interruzione del commercio tra i paesi aveva fatto precipitare il mondo nel baratro, era ancora doloroso.
Non tutto può essere risolto con il denaro (come dimostra l’attuale inflazione) e ci siamo spinti troppo in là nella sacralizzazione dei mercati finanziari, anche in settori come i trasporti
Non dobbiamo dimenticare che l’integrazione europea è sempre stata un miscuglio di tante pulsioni all’interno di compromessi instabili. Lo stesso succederà in futuro: l’Unione europea non è un prodotto finito, tutt’altro. Tra il 1950 e il 1980 Bruxelles si affidò anche a forme pragmatiche di pianificazione industriale, di credito diretto e di controllo dei flussi di capitale. È in questo contesto che la Francia, la Germania e i loro vicini costruirono potenti stati sociali, con investimenti in materia d’istruzione, sanità, alloggi, infrastrutture e tutele. Dimostrarono al mondo che non solo era possibile, ma addirittura essenziale combinare la prosperità economica con la redistribuzione della ricchezza, il rispetto dei diritti individuali e la capacità d’intervento dello stato.
Il movimento verso il libero scambio ebbe poi un’accelerazione negli anni ottanta e novanta e culminò nel 1992 con il Trattato di Maastricht. I socialisti francesi svolsero un ruolo chiave, ottenendo dai cristiano-democratici tedeschi la moneta unica in cambio della deregolamentazione dei flussi di capitale. La scommessa era che il gioco valesse la candela, nel senso che la messa in comune della politica monetaria, con una Banca centrale europea a prendere decisioni a maggioranza e quindi in grado d’ignorare il veto tedesco, avrebbe permesso nuovi spazi di sovranità condivisa. La scommessa è stata in parte vinta: senza l’azione della Bce dopo le crisi del 2008 e del 2020, forse i paesi europei si sarebbero dilaniati in giochi di svalutazione competitiva. Il problema è che non tutto può essere risolto con il denaro (come dimostra l’attuale inflazione) e che ci siamo spinti troppo in là nella sacralizzazione dei mercati finanziari, anche in settori come i trasporti e l’energia, con conseguenze nefaste. Tutto ciò in un contesto in cui la concorrenza cinese e globale è cresciuta, e il libero scambio sfrenato ha fatto aumentare le delocalizzazioni industriali e il senso di abbandono.
Quali caratteristiche potrebbe avere un federalismo del benessere sociale? Il “Manifesto per la democratizzazione dell’Europa”, un appello che ho firmato insieme ad altri studiosi nel 2018, offre delle risposte. I paesi potrebbero istituire un’assemblea europea, designata dai parlamenti nazionali e con il potere di approvare un bilancio per gli investimenti sul futuro (ambiente, formazione, coesione sociale), finanziato da tasse comuni sui profitti e sui redditi più alti, sui patrimoni e sulle emissioni di gas serra. Questo non pregiudicherebbe la sovranità di ogni stato, che, in attesa dell’adozione delle misure, potrebbe imporre ai propri partner alcune condizioni necessarie a proteggersi dalla concorrenza sleale e dal dumping.
La vera difficoltà consiste nello sviluppare, all’interno dell’Unione, un nucleo fondamentale che si basi su questi princìpi senza destabilizzare il continente. Un compito realizzabile partendo dall’assemblea parlamentare franco-tedesca creata nel 2019, alla quale andrebbero conferiti poteri reali. Questo nucleo fondamentale costituirebbe l’embrione di una futura Unione parlamentare europea (Upe), che alla fine potrebbe riunire tutti i 27 paesi dell’Unione. Con le nuove crisi all’orizzonte, il piano di risanamento e le dolorose misure fiscali che dovranno essere adottate, sarebbe illusorio pensare che l’Unione possa gestire la situazione con la regola dell’unanimità. Solo pochi paesi saranno in grado di prendere l’iniziativa. Un motivo in più per farlo subito. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati