Nel 2023 Emmanuel Macron si distinguerà di nuovo come presidente dei ricchi? Purtroppo sì, a giudicare dalla sua riforma delle pensioni. Durante il primo mandato Macron aveva già scelto di puntare tutto sui più ricchi e sull’abolizione della tassa patrimoniale. Questo aveva suscitato un forte sentimento d’ingiustizia, che aveva alimentato il movimento dei gilet gialli, esasperati dal fatto di dover pagare nuove tasse sul carburante mentre ai ricchi si concedevano favori. In qualche mese il governo francese è riuscito a screditare anche l’idea della tassa sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax), che per essere accettata dovrebbe al contrario risparmiare i redditi più bassi e chiedere sforzi maggiori ai ricchi. La soluzione della sfida climatica impone la costruzione di forme collettive di giustizia sociale e fiscale. L’aumento dei prezzi dell’energia, la sostituzione dei veicoli inquinanti con quelli alimentati a energia elettrica e la necessità di ristrutturare gli alloggi per renderli sostenibili, aumenteranno ancora di più la pressione sulle classi popolari e medie. E si dovranno trovare delle risorse per investire di più nella sanità e nella formazione. Per garantire la coesione sociale, sarà indispensabile far pagare di più i ricchi.
Il mondo ha bisogno di giustizia. Basta sfogliare una qualunque rivista per vedere che i milionari e i dirigenti delle aziende godono di ottima salute. In Francia in dieci anni il valore dei cinquecento patrimoni più grandi è passato da duecento a mille miliardi di euro. Basterebbe tassare questi patrimoni al 50 per cento per ottenere quattrocento miliardi. E questa riserva fiscale sarebbe ancora maggiore se si estendesse l’imposta ai 500mila contribuenti più ricchi (l’1 per cento della popolazione), oppure al 10 o 20 per cento dei più abbienti. Tutti loro dovrebbero partecipare allo sforzo contributivo in modo progressivo, seguendo princìpi di equità.
Il governo può cercare di nascondere la cosa, ma la realtà è che con la riforma delle pensioni ha inventato una tassa regressiva che colpisce i ceti meno abbienti
Come all’epoca della rivoluzione francese e dei privilegi della nobiltà, oggi tutti sono consapevoli di queste ingiustizie. Ripetere in continuazione, come fanno alcuni ministri francesi, che la patrimoniale porterebbe nelle casse dello stato meno di cinque miliardi di euro significa prendere in giro i cittadini: una cifra così bassa riflette la scelta dei vari governi di risparmiare i miliardari, lasciandogli eludere il fisco. Ma è proprio questa scelta che bisogna rimettere in discussione: solo affrontando la questione della giustizia si potrà uscire dalla crisi attuale.
Con la riforma delle pensioni il governo si prepara a fare l’esatto contrario. L’obiettivo è risparmiare venti miliardi entro il 2030. Il problema è che questi venti miliardi saranno tutti a carico delle classi più povere. Attualmente per avere una pensione “completa” ci vogliono due condizioni: raggiungere l’età di 62 anni e i contributi richiesti, che corrispondono a 42 anni per chi è nato nel 1961-1962 (durata che passerà gradualmente a 43 con la generazione nata nel 1973). Prendiamo una persona nata nel 1961, che avrà 62 anni nel 2023: se ha una laurea magistrale e ha cominciato a lavorare a 23 anni, già ora dovrà aspettare i 65 anni per raggiungere i 42 anni di contributi. In altre parole la riforma, che consiste nello spostare l’età pensionabile a 64 anni, non avrà alcun effetto per queste persone. Il contributo dei più istruiti sarà pari a zero. Quindi i venti miliardi saranno pagati dal resto della popolazione, in particolare dagli operai e dagli impiegati, che peraltro sono quelli con la speranza di vita più bassa e sono colpiti già da un sistema ingiusto, poiché sono i loro contributi a finanziare le pensioni dei dirigenti.
Il governo può cercare di nasconderlo, ma la realtà è che ha inventato un’imposta regressiva che incide solo sui meno ricchi. Quando la prima ministra Élisabeth Borne annuncia che nessuno dovrà versare contributi per 47 o 48 anni, ammette implicitamente che alcuni dovranno farlo per 45 o 46 anni, e si tratta di quelli che hanno cominciato a lavorare a vent’anni e che spesso fanno lavori usuranti. Tutte le misure di attenuazione potranno essere finanziate solo dai meno istruiti. È così evidente che alla riforma è contraria non solo la sinistra, ma anche gran parte della destra.
Molto debole è anche l’argomento che noi francesi non abbiamo altra scelta che seguire i paesi vicini. Prima di tutto perché i sistemi stranieri sono più complessi di quello che si vuole far credere. E poi il fatto che nessun paese consideri le disuguaglianze sociali del sistema pensionistico non significa che si debba continuare su questa strada. Il fatto che le disuguaglianze sociali esistono significa che non si deve fare nulla per eliminarle? Il sistema pensionistico deve concentrarsi sulle pensioni piccole e medie e permettere a tutti di concludere la propria vita con dignità. Per arrivare a questo risultato i mezzi ci sono. Speriamo che i deputati e la società francesi siano capaci di convincere il governo. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati