In Italia solo uno tra i partiti più importanti ha scelto di restare fuori dal governo di coalizione guidato da Mario Draghi: Fratelli d’Italia (FdI), una forza politica che è passata dal 4 per cento delle elezioni del 2018 al 20 per cento negli ultimi sondaggi. Ed è questo che fa crescere tra i suoi iscritti la convinzione, paradossale per un partito di destra e conservatore come FdI, che la prima donna presidente del consiglio possa essere la loro lea­der Giorgia Meloni.

Il partito è allo stesso tempo orgoglioso e reticente riguardo alla sua storia. FdI è spuntato attraverso varie incarnazioni dalle ceneri postbelliche del Partito nazionale fascista di Benito Mussolini. Questo continua a creargli un certo imbarazzo, ma non abbastanza da evitare di candidare la nipote del dittatore, Rachele Mussolini, alle elezioni amministrative di Roma (è stata la più votata tra i candidati al consiglio comunale). Meloni sottolinea che il partito sta semplicemente traghettando il meglio del nazionalismo italiano in tempi incerti e pericolosi. Sui sondaggi è ottimista: FdI ha superato La Lega di Matteo Salvini. In estate Meloni ha pubblicato un’autobiografia diventata a sorpresa un best seller. Il titolo, _Io sono Giorgia _(Rizzoli 2021), deriva da uno slogan ripetuto spesso durante gli appuntamenti elettorali: “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana: non me lo toglierete”.

La città è un ibrido tra l’eredità austroungarica e quella italoslava

Governi tecnici

Il fatto che FdI si presenti come l’unico baluardo a difesa della libertà e della democrazia è il segno di quanto si sia allontanato dal totalitarismo dei suoi antenati. Ha criticato a spada tratta il cortocircuito democratico creato dai capi di governo tecnici in Italia: prima il professore di diritto Giuseppe Conte e ora Mario Draghi, un banchiere. “La democrazia italiana non ha bisogno di badanti”, mi ha detto Andrea Delmastro, parlamentare di Fratelli d’Italia. “Resistiamo in trincea per la democrazia”.

A causa della pandemia sia Conte sia Draghi hanno governato usando i decreti, giustificati dallo stato d’emergenza, imponendo restrizioni senza precedenti alle libertà civili. Le norme sul green pass volute da Draghi, entrate in vigore il 15 ottobre, obbligano a presentare un certificato vaccinale (o l’esito negativo di un tampone) per frequentare i luoghi di lavoro e gli spazi sociali (ristoranti, bar, librerie). Una legge severa per gli standard italiani, che ha portato alla nascita di un movimento “no green pass” , ridicolizzato dalla sinistra, ma ascoltato e in alcuni casi guidato dalla destra. “Noi crediamo che il _ _green pass sia uno strumento di segregazione di massa”, accusa Delmastro. Tuttavia per FdI la crescita del movimento no green­­ pass è un’opportunità ma anche un problema.

Un movimento molto vario

Durante una manifestazione organizzata il 9 ottobre a Roma, un gruppo di esponenti di Forza nuova (un partito autenticamente fascista) ha guidato un attacco contro la sede della Confederazione generale italiana lavoratori (Cgil), uno dei più importanti sindacati italiani. Si sono viste scene che hanno ricordato l’attacco contro il campidoglio a Washington il 6 gennaio 2021, con la versione italiana dei proud boys (l’organizzazione statunitense di estrema destra) che ha fatto irruzione nella sede del sindacato, armata di bastoni, caschi e bandiere. La vicenda ha riproposto un interrogativo ricorrente su Fratelli d’Italia: che distanza ideologica c’è tra il partito e i suoi cugini di estrema destra? E se questa suona familiare, c’è un’altra domanda, più sfumata, che s’impone: fino a che punto la demonizzazione di FdI impedisce ai commentatori di analizzarne con obiettività sia le scelte politiche sia il fascino che esercita su tante persone?

Il 15 ottobre i manifestanti no green pass si sono radunati nel porto di Trieste, dove alcuni lavoratori erano in sciopero (il 40 per cento dei portuali dello scalo cittadino non è vaccinato). Sembrava qualcosa a metà tra una festa in spiaggia e un evento sportivo. I cori erano simili a quelli degli ultras: “La gente come noi non molla mai”. Uomini dal volto paonazzo trascinavano carrelli pieni di birra. Abbondavano megafoni, fischietti, tamburi e pentole. L’atmosfera era rumorosa e divertita. I portuali in sciopero indossavano gilet catarifrangenti, ma come succede nei festival musicali l’abbigliamento era estremamente confuso e vario, ed era difficile distinguere i ruoli. Il punto è proprio questo: il movimento è così vario da sfuggire a ogni etichetta. È un misto di idealisti, estremisti ed eccentrici, commercialisti, avvocati, camionisti e infermieri. Dopo le violenze della manifestazione di Roma si è cercato in ogni modo di evitare i simboli politici, di conseguenza i neofascisti, gli ultras, i politici e perfino molti poliziotti erano in borghese.

Non è un caso che Trieste sia diventata l’epicentro delle proteste contro il ­green­ pass. Il porto è uno snodo cruciale della logistica europea, da qui ogni giorno partono otto treni merci verso Budapest e dodici verso Monaco di Baviera. Trieste, inoltre, è sempre stata un calderone politico. La città è un ibrido tra l’eredità austroungarica e quella italoslava, e ospita minoranze ebraiche, protestanti e ortodosse.

Conosciuta come città letteraria, liberale e di cultura, è altrettanto famosa per il suo fascismo risoluto e di frontiera. È qui che nel 1938 Mussolini scelse di annunciare le leggi razziali, ed è sempre qui che FdI ha organizzato il suo secondo congresso nazionale. A Trieste i politici hanno trasformato la vicenda delle foibe del 1943-1945 (in cui cittadini italiani furono uccisi dai partigiani iugoslavi) in uno strumento per contrastare la narrativa dei “fascisti uguale cattivi”.

Oggi esiste anche un giorno del ricordo delle vittime delle foibe. Di recente una statua dello scrittore Gabriele D’Annunzio, fascista della prima ora, è stata collocata nel centro di Trieste, e un consigliere comunale ha chiesto di dedicare alcune strade a famosi combattenti fascisti. Nel 2019 il vicesindaco è salito alla ribalta nazionale buttando nella spazzatura le coperte dei senzatetto. Trieste è una città con una classe politica che ha un debole per l’ordine vecchio stampo.

Il 18 ottobre Roberto Dipiazza, candidato dal centrodestra, è stato eletto per il quarto mandato come sindaco della città. Ex imprenditore dai modi garbati, Dipiazza definisce “una follia” le proteste al porto. Quando gli faccio notare che molti esponenti dei partiti che lo sostengono hanno partecipato alle manifestazioni organizzate dai no green pass, mi risponde sorridendo: “Non confonda la politica con il buonsenso”. Dipiazza sminuisce con decisione i timori di un ritorno del fascismo, come fa gran parte della destra italiana. “Ogni volta che ci sono le elezioni la sinistra tira fuori questa storia del fascismo. Cercano di compattare l’elettorato lanciando l’allarme ‘Attenzione, sta tornando il fascismo’”, spiega, prima di rispondere esausto “Basta, basta”.

Tornando alle proteste al porto è chiaro che il covid ha spinto molti elettori di sinistra a sostenere movimenti emergenti di destra, come in passato avevano fatto la post-industrializzazione e l’immigrazione di massa. A prescindere dalla validità delle loro rivendicazioni – “Non siamo terrapiattisti”, mi assicura un manifestante – è evidente che queste persone si sentono abbandonate dai tradizionali alleati della sinistra, che hanno ripetutamente ridicolizzato il movimento no green pass. La protesta, di conseguenza, è diventata un luogo in cui l’appartenenza politica si dissolve. Un sindacalista ha dichiarato al Corriere della Sera di essere un “comunista che si trova meglio con i fascisti”.

Il movimento no green pass potrà anche essere una realtà secondaria nella politica italiana, ma resta significativo. L’azione di protesta probabilmente si esaurirà – a Trieste il 18 ottobre la polizia è intervenuta con lacrimogeni e idranti – ma in questa minoranza insoddisfatta serpeggia un forte senso di alienazione politica, soprattutto dopo che i sindacati si sono divisi sull’introduzione di un salario minimo. “La politica è morta”, mi confessa Stefano Puzzer, leader della protesta dei portuali, “queste persone non votano da anni”.

Il movimento no green pass è simile a un altro gruppo di elettori delusi, quello del Movimento 5 stelle. Dopo aver raggiunto il 30 per cento dei voti alle politiche del 2018, il partito vive una fase di implosione e divisione. Fratelli d’Italia considera la conquista di questi elettori frustrati, che prima seguivano Beppe Grillo, una via per il potere. Uno scenario simile non è impossibile come si potrebbe pensare. Dopo aver trascorso un po’ di tempo insieme ai manifestanti ho cominciato a percepire qualcosa di malinconico.

Molti se ne stavano seduti da soli con lo sguardo fisso sul telefono, ma quando partiva una canzone cominciavano subito a cantare in modo euforico, come se finalmente si sentissero parte di qualcosa. È come se la protesta avesse dato a queste persone una causa, un’appartenenza e anche un’identità. E se c’è qualcosa che Meloni offre in abbondanza è proprio l’identità. Nei suoi comizi questa parola è una delle più ricorrenti, lei la definisce “il nemico principale della corrente globalista”. Con identità Meloni intende famiglia, nazione e cristianità, tutti concetti che lei ritiene “sotto attacco” a causa della “dittatura del politicamente corretto della Silicon valley”.

Trieste, 20 ottobre 2021. Fabio Tuiach, 41 anni, lavoratore portuale ed ex campione italiano dei pesi massimi (Tommaso Vaccarezza)

Questa analisi generica contiene un bel po’ di tracce di paranoia: gli attivisti del movimento Black lives matter sono equiparati ai taliban, mentre gli speculatori finanziari globali vogliono “disarticolare gli stati nazione per indebolirli”. Questo complottismo, però, è allettante per le persone che si sentono emarginate e ignorate. Meloni va dritta alla pancia e nelle vene, come la birra economica. E quando cominci a essere alticcio è facile compiere il passo che separa l’identità dall’identitarismo, ovvero ciò che il nostro secolo ha di più simile al fascismo.

Forse non c’è da stupirsi se l’accusa rivolta a FdI è sempre la stessa: chi critica il partito sostiene che, dietro la facciata moderata e democratica, la sua leader continua a celebrare le personalità, l’iconografia e le idee del ventennio, come dimostrano i tanti casi di cimeli fascisti trovati nelle case o addirittura negli uffici degli esponenti del partito. A marzo Ignazio La Russa, uno dei fondatori di FdI, ha incontrato i leader di Forza nuova. La risposta perplessa di Meloni davanti alle violenze di Roma (“Non conosco la matrice”) appare decisamente falsa.

In tempi recenti non sono mancati gli episodi di squadrismo. Paolo Berizzi, giornalista che ha indagato sulle attività dell’estrema destra, è costretto a vivere sotto scorta. Gli allarmi a proposito del fascismo contemporaneo non sono chiaramente, come sostengono i politici di destra, un “grido al lupo al lupo”.

Il fenomeno, tra l’altro, non riguarda solo l’estrema destra. Enrico Michetti, candidato del centrodestra a sindaco di Roma, parlando in radio, si chiedeva perché la stessa pietà e la stessa considerazione per gli ebrei sterminati durante l’olocausto non c’è anche per le vittime delle foibe. Secondo Michetti forse è perché i primi controllavano le banche e appartenevano “a una lobby capace di decidere i destini del pianeta”. Non c’è dubbio che queste parole siano state riproposte con tempismo cinico dai suoi avversari durante la campagna elettorale, ma è innegabile che rivelino la tendenza a usare (consciamente o meno) i classici luoghi comuni dell’estrema destra.

Le richieste degli elettori

Il problema della sinistra, invece, è che non ha il coraggio di offrire la sua versione della birra economica. Niente di ciò che dice va dritto alla pancia dell’elettorato. La sinistra italiana fa un ottimo lavoro quando deve andare contro qualcosa (il fascismo) ma non offre una visione, una causa, un senso di lotta o una direzione, e non osa nemmeno proporre le leggi che la sua base chiede da tempo, come quella sullo ius soli (una legge che permetterebbe di diventare da subito italiano a chiunque nasce in Italia) o quella contro l’omotransfobia. Il Partito democratico ha scrupolosamente evitato di commentare il recente referendum per legalizzare la cannabis.

I leader del centrosinistra pensano che i successi alle amministrative di Milano, Bologna e Napoli dimostrino che la loro sobria strategia centrista sta funzionando. Il centrosinistra ha vinto anche il ballottaggio a Roma e Torino, con circa il 60 per cento dei voti, conquistando inoltre alcune roccaforti della destra come Varese e Latina. Solo a Trieste il centrodestra ha vinto confermando le previsioni. Ma il vero vincitore delle ultime elezioni è stata l’antipolitica. L’affluenza, al 44 per cento, in calo rispetto a cinque anni fa. “Molte persone non credono più che sia possibile cambiare le cose attraverso il voto”, mi ha detto Marcello De Angelis, ex senatore di Alleanza nazionale. “L’astensionismo è la malattia degenerativa della democrazia”.

Resta da vedere se questa malattia si rivelerà mortale. In ogni caso se Meloni vuole diventare presidente del consiglio dovrà corteggiare la minoranza scettica (di cui fanno parte i manifestanti no green pass) ormai convinta che il cambiamento democratico sia solo un’illusione. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati