Il 13 novembre, all’indomani di un doppio attentato suicida che ha provocato la morte di 43 persone nella periferia meridionale di Beirut, tutte le scuole e le università del Libano restano chiuse in segno di lutto.
Il provvedimento, senza precedenti nonostante i numerosi attacchi che hanno scosso il paese dall’inizio della crisi siriana nel 2011, dimostra quale sia l’impatto emotivo dell’attacco rivendicato dal gruppo Stato islamico.
L’attentato più grave compiuto a Beirut dalla fine della guerra civile nel 1990 segna la fine di una tregua durata poco meno di due anni in cui la capitale libanese non è stata coinvolta dal caos che imperversa nella regione. L’ultimo attacco di una certa gravità risale al 19 febbraio 2014, quando un’autobomba piazzata davanti al centro culturale iraniano aveva provocato la morte di undici persone. “Temo che possa tornare il periodo degli attentati”, ha ammesso il ministro della salute Wael Abou Faour, in linea con il pessimismo diffuso tra gli abitanti della capitale.
Un bastione di Hezbollah
Il primo kamikaze si è fatto esplodere a bordo di una moto in una strada affollata del quartiere di Burj el Barajneh, che come la quasi totalità della periferia meridionale di Beirut, è una roccaforte di Hezbollah, il movimento sciita libanese. È lì che vive una parte dei dirigenti (militari e politici) e dei militanti dell’organizzazione. A pochi minuti dalla prima esplosione, avvenuta davanti a un centro culturale sciita, un secondo kamikaze si è fatto esplodere poco lontano, tra la folla che accorreva sul luogo del primo attentato. Oltre ai 43 morti, ci sono più di 240 feriti, secondo i soccorritori. Il bilancio avrebbe potuto essere ancora più pesante, perché un terzo kamikaze è morto a causa delle esplosioni prima di poter denotare le sue cariche.
L’attentato arriva in un momento di difficoltà per la multinazionale del terrore guidata da Abu Bakr al Baghdadi
Nel comunicato con cui lo Stato islamico ha rivendicato l’attentato, il gruppo si è complimentato con “i soldati del califfato” per aver colpito i “bastioni degli eretici”, un riferimento agli sciiti che i jihadisti considerano come infedeli. L’odio degli estremisti sunniti nei confronti di Hezbollah è aggravato dalla partecipazione, a partire dal 2012, delle milizie sciite alla guerra civile in Siria, un paese a maggioranza sunnita, a fianco di Bashar al Assad. Nel 2013 e fino all’inizio del 2014 una mezza dozzina di attentati ha insanguinato le aree sciite di Beirut, uno di questi è stato rivolto contro l’ambasciata dell’Iran, alleato regionale di Hezbollah. Gli attentati sono stati rivendicati da diverse organizzazioni jihadiste come le Brigate Abdallah Azzam (un gruppo vicino ad Al Qaeda) o il Fronte al nusra, la sezione siriana dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden e dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, organizzazione jihadista antenato del gruppo Stato islamico.
La carneficina di Burj el Barajneh arriva in un momento di difficoltà per la multinazionale del terrore guidata da Abu Bakr al Baghdadi, autoproclamato “califfo” e “principe dei fedeli”. Il 10 novembre, con l’aiuto dell’aviazione russa, l’esercito siriano è riuscito a rompere l’assedio dell’aeroporto di Kweires, nel governatorato di Aleppo, circondato dai miliziani dello Stato islamico ormai da due anni. Due giorni dopo, le truppe del regime hanno conquistato la città di Hader, nella stessa regione, importante base del Fronte al nusra. Alcune centinaia di chilometri più a est, la città irachena di Sinjar, su cui sventola la bandiera nera dei jihadisti dall’estate del 2014, è stata oggetto di un’offensiva simultanea dei peshmerga curdi e della coalizione contro lo Stato islamico, guidata dagli Stati Uniti.
Il gruppo Stato islamico sotto pressione in Siria
“Dopo l’intervento di Mosca, il gruppo Stato islamico è stato sottoposto a una grande pressione”, spiega Mario Abu Zeid, analista del centro Carnegie di Beirut. “I bombardamenti russi hanno ridato slancio al regime siriano, che ha cominciato a recuperare parte del territorio in mano ai jihadisti”.
In questo senso anche se le modalità sono diverse, l’attacco al quartiere sciita di Beirut può essere ricollegato all’esplosione in volo dell’aereo russo in viaggio da Sharm el Sheik a San Pietroburgo, avvenuto lo scorso 31 ottobre e rivendicato dalla sezione egiziana dello Stato islamico. Anche se le indagini non hanno ancora escluso altre ipotesi, i dati raccolti finora (soprattutto quelli della scatola nera) lasciano pensare che l’aereo sia esploso a causa di una bomba.
Per il momento il tessuto sociale libanese ha sorprendentemente resistito
Indebolito nel suo territorio in Siria e in Iraq, il gruppo jihadista ha aperto un altro fronte attaccando gli alleati del regime siriano come la Russia e Hezbollah. Questo dimostra che la capacità di rappresaglia dell’organizzazione è ancora intatta e giustifica il timore di nuovi attentati, mentre l’offensiva contro i jihadisti procede a rilento.
“Questa strage è una provocazione”, sottolinea il ricercatore libanese Walid Charara. “L’obiettivo è quello di alimentare il contrasto tra sciiti e sunniti in Libano”.
Per il momento il tessuto sociale libanese ha sorprendentemente resistito, malgrado qualche sparuto episodio di violenza. Questo piccolo miracolo è dovuto soprattutto alle consegne che le due grandi coalizioni politiche del paese, Il 14 marzo (un partito a maggioranza sunnita) e L’8 marzo (un partito a maggioranza sciita), hanno dato ai diversi servizi di sicurezza (vicini all’uno o all’altro schieramento), affinché collaborino tra loro per combattere la minaccia terrorista. Questo coordinamento ha permesso di scongiurare più di una strage, anche se davanti a un nemico così determinato è impossibile sventare tutte le minacce.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Le Monde. Clicca qui per vedere l’originale.
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