Donald Trump domina il Partito repubblicano statunitense da quasi dieci anni, eppure molti commentatori faticano ancora a capire perché. Di sicuro gli elettori non si sono stancati di lui. Lo dimostra il fatto che, nonostante tutti gli scandali e il caos del suo primo mandato, culminato con il tentativo di restare al potere dopo aver perso le elezioni del 2020, circa metà dell’elettorato (75 milioni di statunitensi, secondo le previsioni) voterà ancora per lui. A cosa si deve questa straordinaria forza politica? Inizialmente molti commentatori e politici di sinistra hanno dato la colpa al razzismo, alla misoginia e alla xenofobia, favoriti da disinformazione e bugie. Hillary Clinton, sconfitta da Trump nel 2016, ha riassunto questo punto di vista con una frase passata alla storia: “Se vogliamo essere grossolani, direi che possiamo mettere i sostenitori di Trump in quello che chiamo ‘il cesto degli spregevoli’”.
Con il tempo sono venute fuori analisi meno avventate. Gli esperti hanno proposto tre tipi di spiegazioni per il successo di Trump: i politologi mettono l’accento sull’importanza delle istituzioni, gli economisti sottolineano le condizioni materiali e i sociologi evidenziano la spaccatura culturale tra élite e popolo. La prima spiegazione, quella più politica, vede Trump come un fortunato beneficiario (o magari un astuto approfittatore) del particolare sistema politico statunitense. Il maggioritario a turno unico, che assegna la vittoria al candidato che ottiene un voto in più, favorisce il sistema bipartitico. Le primarie aperte permettono ai militanti dei partiti di avere un potere maggiore rispetto alle élite nella scelta del candidato presidenziale, quindi una particolare corrente, come il movimento Make America great again (Maga) guidato da Trump, può prendere il controllo di un grande partito.
Anche nel Partito democratico sono emerse correnti radicali, sia nel 2016 con Bernie Sanders sia nel 2020 con Elizabeth Warren. Tuttavia, nessuno dei due è riuscito a conquistare il 25-35 per cento degli elettori delle primarie, come invece ha saputo fare Trump nel 2016. Se gli Stati Uniti avessero sistemi multipartitici come quelli europei, un movimento come il Maga potrebbe raccogliere grandi consensi senza però arrivare a conquistare una maggioranza. Un po’ quello che succede in Germania con l’estrema destra di Alternative für Deutschland.
Una volta ottenuto il controllo del partito, la corrente ribelle è favorita dal sistema bipartitico, che costringe gli altri ad accettarne la nuova leadership. Questo meccanismo spiega la solidità della posizione attuale di Trump all’interno del Partito repubblicano. Ma questa teoria risulta meno soddisfacente se vogliamo capire perché la presa di Trump sia così duratura, al punto che il candidato repubblicano è diventato il primo a ottenere la nomination per la terza volta dai tempi di Franklin Roosevelt.
Su questo aspetto potrebbe dirci qualcosa la seconda spiegazione, quella basata sulle condizioni economiche. Durante il primo mandato di Trump l’economia statunitense ha vissuto un periodo di grande crescita, fino alla pandemia di covid-19. Anche se gli elettori non hanno apprezzato la gestione di Trump (e soprattutto i fatti del 6 gennaio 2021, quando i sostenitori del presidente hanno preso d’assalto il campidoglio) oggi la rabbia per la crescita dell’inflazione e il pessimismo rispetto alle prospettive economiche li spingono a bocciare i democratici, favorendo Trump. I segnali che arrivano da altri paesi avvalorano questa teoria.
In tutto il mondo – dal Regno Unito alla Francia, dall’India al Giappone – gli elettori stanno votando contro i partiti di governo. Tuttavia, l’idea che l’economia spinga le persone a cambiare posizione politica non si adatta al contesto statunitense. Il divario tra il pil pro-capite degli Stati Uniti e quello registrato in Canada, Europa occidentale e Giappone è raddoppiato dal 1990. L’economia statunitense fa invidia al resto del mondo, con un amento progressivo e stabile dei salari dei lavoratori più poveri. Non solo: i dati mostrano che i salari sono in aumento anche nelle zone che sono state “lasciate indietro” e che in quesi posti non c’è stato nessun aumento della disuguaglianza di reddito nell’ultimo decennio.
Questo ci porta alla terza spiegazione. Anche se la politica statunitense è perfettamente spaccata a metà da dieci anni, non si può dire che sia rimasta immobile. Rispetto al passato, infatti, le posizioni politiche sono determinate meno dall’etnia e dal reddito: la nuova frattura riguarda il livello d’istruzione. I democratici attirano sempre di più il sostegno dei professionisti e delle classi benestanti dei sobborghi, che disprezzano Trump e lo ritengono inadatto a guidare il paese. Le classi meno ricche apprezzano invece il fatto che Trump si scagli apertamente contro i nemici, parli come loro, parli con loro e gli prometta un futuro in cui riceveranno dignità e una condizione finanziaria invidiabile, anche se molti di loro sanno benissimo che questo scenario difficilmente si realizzerà.
Alcune settimana fa, visitando un’area del North Carolina colpita dalle inondazioni, Trump ha promesso che una volta tornato alla presidenza farà ricostruire tutte le case danneggiate, rendendole ancora più belle di prima. In altre parole il leader repubblicano dà a molti cittadini l’impressone di essere considerati dal potere. Il fatto che Trump indossi l’uniforme dei dipendenti di McDonald’s o quella dei netturbini, nonostante abbia un patrimonio di svariati miliardi di dollari, contribuisce ad alimentare questa sensazione. Kamala Harris, che invece da McDonald’s ha lavorato davvero, non si presta a questo tipo di cose.
Questo riallineamento in base ai titoli di studio crea una spaccatura culturale, più che economica, nella popolazione. Guidato da Trump, il Partito repubblicano sembra avere un programma economico per certi versi progressista, favorevole al protezionismo, agli sgravi fiscali per i lavoratori e all’attuale sistema di sussidi. Per molti statunitensi non laureati i democratici sono diventati un partito arrogante che non si occupa delle persone comuni. È per questo che alcuni sindacati dei settori industriali si stanno schierando con Trump anche se sono stati ricoperti di dollari dall’amministrazione Biden; ed è per questo che la campagna elettorale di Trump ha approfittato di alcune confuse dichiarazioni di Biden, che pochi giorni fa ha definito “spazzatura” i sostenitori dell’ex presidente, per rilanciare il messaggio secondo cui i democratici pensano ancora che gli avversari siano “spregevoli”.
Oggi i democratici (e con loro un buon numero di ex esponenti dell’élite repubblicana) si chiedono come sia possibile che i sostenitori di Trump siano indifferenti al suo tentativo di ribaltare un voto democratico, ai suoi scarsi risultati come presidente o al fatto che la sua amministrazione ha contribuito a limitare il diritto all’aborto. Gli elettori di Trump pensano semplicemente che queste critiche siano esagerate e anche ipocrite, e che il sistema giudiziario sia stato trasformato in un’arma per colpire Trump (un sistema che l’ex presidente dice di voler usare contro i suoi nemici).
A causa di questa spaccatura culturale, oggi i democratici e i repubblicani vivono in due paesi diversi. Decine di milioni di elettori di Trump credono (sbagliando) che gli Stati Uniti siano in recessione e che i democratici abbiano provocato un aumento dell’inflazione, mentre ai tempi di Trump l’economia andava alla grande. Questi elettori sottolineano che durante la presidenza di Trump non ci sono state guerre, mentre oggi il mondo è stravolto dalle crisi in Ucraina e Medio Oriente. Il trumpismo si basa su una logica semplicistica, ma abbastanza potente da riportare Trump alla Casa Bianca.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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