Il 10 e 11 febbraio 2025 all’Artificial intelligence action summit di Parigi si sono riuniti i rappresentanti di più di cento paesi per discutere il futuro dell’intelligenza artificiale e delle sue implicazioni geopolitiche: ne abbiamo parlato anche su Il Mondo. L’incontro ha messo in evidenza, fra l’altro, le tensioni tra Stati Uniti, Cina e Unione europea.
Alla fine del vertice 61 paesi hanno firmato una dichiarazione congiunta sulle ia, che punta a creare un sistema basato sull’apertura alla collaborazione internazionale e, a parole, sull’inclusione e la trasparenza. Tra i firmatari ci sono Francia, Germania, Italia, India e Cina.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito, invece, si sono rifiutati di aderire: il vicepresidente statunitense JD Vance – secondo una retorica cara alla sua fazione politica – ha espresso preoccupazioni per possibili limiti all’innovazione imposti dalla regolamentazione europea. Ha anche criticato l’apertura dell’accordo a paesi come la Cina che, secondo gli Stati Uniti, potrebbero utilizzare la cooperazione come leva per rafforzare il proprio controllo sulle tecnologie emergenti. Il governo britannico ha giustificato il mancato sostegno citando incertezze sulla governance globale e sulla sicurezza nazionale.
Quanto alla Cina, la firma dell’accordo rappresenta l’ennesimo esempio di contrapposizione agli Stati Uniti, che in questo campo è appena all’inizio. Dopo che l’ia cinese DeepSeek ha dimostrato di poter ottenere grandi risultati con un modello (quasi) open source e a costi e consumi più ridotti rispetto ai giganti statunitensi, Pechino si mostra disponibile proprio a quella cooperazione internazionale che l’amministrazione Trump e le grandi aziende statunitensi non intendono avviare.
Durante il vertice, il presidente della repubblica francese Emmanuel Macron ha annunciato un piano di investimenti da 109 miliardi di euro nell’intelligenza artificiale. Anche la presidente della Commissione europea ha annunciato di voler raccogliere 200 miliardi di euro per l’intelligenza artificiale in Europa.
Sono cifre importanti, ma la cosa più importante è capire da dove arrivano i soldi.
Quelli francesi non sono solo francesi e non sono solo pubblici. Gran parte dell’investimento, infatti, dovrebbe derivare da impegni presi dal settore privato e da partner internazionali. Tra questi, il fondo d’investimento canadese Brookfield ha promesso 20 miliardi di euro per le infrastrutture ia, mentre il contributo degli Emirati Arabi Uniti potrebbe arrivare fino a 50 miliardi di euro, inclusi finanziamenti per un data center da 1 gigawatt. Anche la Amazon, il fondo di investimento Apollo global management e la multinazionale Digital realty dovrebbero partecipare aggiungendo altri 17 miliardi. Macron ha quindi ottenuto impegni importanti, ma i fondi non sono già disponibili e dipenderanno dalla volontà degli investitori di rispettare le promesse fatte a Parigi.
Quanto ai soldi europei, dobbiamo dire subito che non sono un investimento reale: è vero che Ursula von der Leyen – ammettendo i ritardi dell’Unione europea – ha annunciato la cifra di cui parlano tutti: 200 miliardi. Ma il meccanismo dell’iniziativa è simile a quello del piano Juncker del 2015, che prometteva miliardi per l’innovazione ma si basava su un mix di fondi pubblici e investimenti privati. L’idea è che il denaro pubblico funzioni da garanzia per attirare capitali dal settore privato. Se tutto funziona come previsto, InvestAi potrebbe in effetti sbloccare enormi investimenti. Se gli investitori privati non rispondono, però, la cifra reale potrebbe essere molto inferiore.
Comunque, di questi 200 miliardi, ben 150 miliardi di euro dovrebbero provenire da aziende, venture capital e fondi d’investimento. Cinquanta miliardi di euro verranno messi dall’Unione Europea attraverso i programmi Horizon Europe, Digital Europe Programme e InvestEu (che richiedono anche dei co-finanziamenti). Di questi, 20 miliardi di euro finanzieranno quattro cosiddette ai gigafactories, supercomputer specializzati nell’addestramento di modelli avanzati. Le ai gigafactories, secondo gli annunci, dovrebbero ospitare fino a centomila chip di ultima generazione, quattro volte la potenza delle attuali ai factories, con l’obiettivo di permettere a ricercatori e startup europee di competere con i colossi statunitensi e cinesi.
Il problema è che l’Europa non ha giganti tecnologici paragonabili alla OpenAi, a Google o alla Tencent, quindi queste infrastrutture rischiano di rimanere inutilizzate o di finire sotto il controllo di grandi aziende già affermate e di essere terreno di conquista di altre nazioni.
La proposta di un Cern dell’intelligenza artificiale, avanzata da ricercatori europei già nel 2018, potrebbe offrire una soluzione a tutti questi problemi. Il Cern di Ginevra, infatti, è considerato un modello di successo perché: non dipende da investitori privati, ma da finanziamenti pubblici garantiti dai paesi membri; è un polo di ricerca indipendente, dove scienziati da tutto il mondo collaborano senza pressioni commerciali; ha prodotto innovazioni cruciali, tra cui il world wide web. Inoltre, essendo un’istituzione pubblica, il Cern ha, nel proprio statuto, una politica di diffusione delle tecnologie senza scopo di lucro, ponendole al servizio del progresso della scienza e del bene dell’umanità. Non dovrebbe essere questa la strada di una ricerca sulle ia davvero etica? Anche questa parola, etica, sembra spesso usata a sproposito.
“Basta parlare di etica, ia responsabile e regolamenti che fanno felici solo avvocati, filosofi e sociologi. Coinvolgiamo matematici, informatici e ingegneri per affrontare i problemi più complessi e costruire l’infrastruttura tecnologica necessaria. Via burocrazia e perdite di tempo, lasciamo libertà ai ricercatori”, scrive il professor Attardi, che abbiamo citato più volte qui su Artificiale. Non bisogna confondere il suo invito con le ragioni di Vance, che si guarderebbe bene dal proporre un equivalente del Cern. “Le startup europee dovranno cercare fondi negli Stati Uniti”, conclude Attardi. E in effetti il modo in cui Macron pensa di investire in Francia sembra proprio dargli ragione.
Il summit di Parigi ha mostrato che l’Europa vuole giocare un ruolo di primo piano nell’ia, ma gli annunci miliardari devono ancora tradursi in risultati concreti. Si usano un sacco di parole altisonanti che spesso trascendono nel mistico: sì, certo, le intelligenze artificiali devono essere al servizio dell’umanità.
L’etica è importante, certo. Ma quale? Di quale paese, di quale cultura? E perché si continua a parlare di etica degli algoritmi e delle macchine? Anche le regole sono importanti, ma quali e per cosa? Perché l’Unione europea si mostra ossessionata dalle regole? Perché non si sente parlare dei problemi reali come l’uso delle ia nelle armi o nella sorveglianza? Google di recente ha rimosso dalle sue linee guida sull’intelligenza artificiale il divieto di utilizzare la tecnologia a scopi potenzialmente dannosi; progetti opachi come la smart control room di Venezia che ho raccontato nel mio documentario Smart controlled o come i controlli automatizzati alle frontiere proseguono senza che le istituzioni sollevino questioni etiche.
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
Iscriviti a Artificiale |
Cosa succede nel mondo dell’intelligenza artificiale. Ogni venerdì, a cura di Alberto Puliafito.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Artificiale
|
Cosa succede nel mondo dell’intelligenza artificiale. Ogni venerdì, a cura di Alberto Puliafito.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it