Il 16 ottobre, a Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica filoarmena del Nagorno Karabakh, i colpi di artiglieria hanno cominciato a risuonare alle dieci di sera. Si sentivano in lontananza, dai valichi di montagna. Qui ormai le persone si sono abituate. Poi, all’una di notte, il corrispondente di Kommersant dall’Azerbaigian, Kirill Krivošeev, ha scritto sul suo canale Telegram che la città azera di Ganja era stata di nuovo colpita da un bombardamento. Mezz’ora dopo, puntualissima, la risposta azera è arrivata a Stepanakert. Le granate hanno cominciato a esplodere a pochi metri di distanza dalla pensione dove eravamo. Molti sono scesi nel seminterrato o si sono accalcati nei corridoi, il più lontano possibile dalle finestre. Inutile dire che nessuno è riuscito a dormire: la sirena d’allarme antiaereo è stata in funzione fino all’alba, interrotta solo dal rombo delle esplosioni. Il fuoco si è placato soltanto al mattino.

Con il fotografo Anatolij Ždanov siamo andati in città per documentare le conseguenze del bombardamento. Non è stato necessario andare troppo lontano: una granata non molto grande era caduta proprio accanto alla pensione, in mezzo alla strada che percorriamo ogni giorno. Nell’asfalto si è aperta una voragine da cui si diramano fori di minori dimensioni. Tutti gli edifici intorno hanno le finestre in frantumi. Al pianterreno, come d’uso a Stepanakert, ci sono i negozietti con le loro grandi vetrine: la bottega delle scarpe, la cartoleria, il negozio per bambini. Gli oggetti sono zeppi di schegge di vetro. Degli uomini raccolgono tristemente quello che si è salvato e lo ripongono in qualche scatola. Il proprietario di un negozio scuote con cura un cagnolino giocattolo bianco per liberarlo dalla polvere e dai detriti. All’altro lato della strada, vicino a un palazzo di cinque piani, una donna anziana sta piangendo. Si chiama Giulietta. Ci invita a entrare.

Mentre saliamo le scale – sulle pareti sono disegnati dei cuoricini – ci racconta che nel condominio non ci sono state vittime: tutti i vicini hanno passato la notte nello scantinato. Poi ci mostra gli infissi delle finestre abbattuti dall’onda d’urto e ricomincia a piangere: “Tra poco comincerà a fare freddo. Questo chi me lo rimette a posto? Tanto di soldi da spendere non ne ho più. In qualche modo tireremo avanti, basta restare vivi”.

Bombe sulle case
La tappa seguente del nostro percorso è un piccolo albergo accanto al mercato. Lì vicino il giorno prima avevamo filmato gli attivisti del gruppo di Facebook Amanti degli animali di Artsakh – un’antica regione dell’Armenia e oggi il nome ufficiale della repubblica autoproclamata del Nagorno Karabakh – che davano da mangiare a dei gatti randagi. Adesso nell’edificio si è aperta una voragine, esattamente tra il muro e il tetto. Le porte non sono chiuse, così attraversiamo il corridoio buio e deserto e raggiungiamo l’ultima porta. La apro, ma subito mi ritraggo bruscamente. Il letto più distante dal vetro è coperto di sangue: sul lenzuolo bianco c’è una grossa macchia scura. Sul pavimento ci sono gli stracci che sono serviti a fermare l’emorragia. Dal buco nel muro si apre a tutto tondo la vista sulle macerie. La parete di cartongesso è bucata e si vede l’appartamento accanto. Ci andiamo.

Qui i letti sono ricoperti di pezzi del soffitto crollato. Torniamo indietro e notiamo solo ora che anche all’uscita per terra c’è una grande chiazza marrone. I colleghi ci suggeriscono di raggiungere un altro punto: via Puškina, al margine della città. Là una granata ha colpito in pieno una casetta. Nel cratere ci sono mattoni, scaffali, tubi. La vicina racconta che l’esplosione è stata alle quattro del mattino: “Una donna dentro stava dormendo, l’hanno tirata fuori e portata all’ospedale. Non si sa se sia ancora viva o no”. Non ha altro da dire.

Proseguiamo e raggiungiamo il villaggio. La sera del 16 ottobre le agenzie d’informazione armene hanno comunicato che la zona era stata bombardata e che alcuni civili erano stati feriti. Un paio d’ore dopo queste dichiarazioni è stata bombardata la città azera di Ganja. Gli abitanti ci indicano la casa della famiglia Melkumjan: una granata è caduta a una ventina di metri dall’edificio. Le schegge hanno ferito Semen Melkumjan, 36 anni. Suo padre Jurij vaga sconsolato per il campo e guarda le schegge di metallo sparse a terra. “Ero in casa, stavamo andando a cena, la tavola era quasi pronta. A un certo punto sento un’esplosione da qualche parte, tre colpi”, racconta Jurij Melkumjan. “Poi il quarto colpo, proprio vicino a casa, fortissimo. Mi sono ritrovato a terra, ricoperto di vetri e con le orecchie che mi ronzavano. E ho sentito mio figlio che gemeva: ‘Papà, papà… Mi fa male…’”. L’uomo si asciuga le lacrime. Ci fa entrare in casa e ci mostra delle macchioline rosse sulla parete bianca: “Ecco, questo è il sangue di mio figlio. E meno male che gli azeri non hanno fatto centro. Un paio di metri più vicino, e ora non saremmo qua a parlare”.

Per poco la casa non è stata distrutta. Le porte a vetro sono rotte, il soffitto ha ceduto, i mobili distrutti. Dalle pareti le icone con l’immagine di Gesù sembrano osservare la devastazione. “I turchi non ce l’hanno fatta a distruggerci”, dice Juri Rubenovič avvicinandosi all’icona. Poi aggiunge “Resisteremo per Gesù, per la nostra terra, e combatteremo, se sarà necessario”. “I cinque figli di Semen sono ancora piccoli, ma gli azeri non sono riusciti a renderli orfani. Sono cinque futuri soldati”, dice Grigorij. Nelle vicinanze alcuni miliziani armeni stanno di guardia, imbracciando fucili automatici. Uno di loro, Vrezh, comincia a fare domande: “Allora, voi russi, dall’esterno, che cosa pensate della nostra guerra? Come si può fare a fermarla? Dimmelo tu”. “Credo che serva un compromesso”, gli rispondo. “Cedete parte dei territori non abitati dagli armeni. Come Agdam, per esempio”.

Vrezh annuisce, ma senza essere troppo d’accordo: “Agdam, perché no. Sinceramente, Agdam non ci serve a un cazzo. E anche Dzhebrail, i nostri non ci hanno mai vissuto. Ma chi ci garantisce che quelli, dopo essersi presi questi territori, magari tra una decina d’anni non comincino una nuova guerra per prendersi il resto? Ai turchi non ci crede nessuno. Tu piuttosto dimmi perché la Russia non dice niente. Perché i soldati russi per la Siria sono morti e per l’Armenia no? Per voi la Siria è più importante, eh?”. Il miliziano si allontana e l’autista mi chiede: “Sai che cosa significa il suo nome? Vrezh, in armeno, vuol dire vendetta”.

(Traduzione di Alessandra Bertuccelli)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it