Il 30 novembre il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha lanciato dure minacce verso le economie emergenti che formano il gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). L’avvertimento riguardava l’idea di creare una propria moneta per mettere fine al dominio del dollaro negli scambi internazionali.

È assurdo pensare che “staremo a guardare mentre loro cercano di abbandonare la nostra valuta”, ha detto Trump. “Questi paesi si devono impegnare a non creare una loro moneta e a non appoggiare una qualunque altra valuta per sostituire il nostro potente dollaro, altrimenti subiranno dazi doganali del 100 per cento. E a quel punto dovranno dire addio alle vendite nel meraviglioso mercato statunitense e andare a cercarsi qualche altro “idiota”! Non c’è alcuna possibilità che i Brics sostituiscano il dollaro nel commercio internazionale, e ogni paese che ci prova deve dire addio all’America”.

Le parole di Trump si scontrano con il suo principale obiettivo di politica economica: ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti potenziando le esportazioni e diminuendo le importazioni. Tutto questo dovrebbe rafforzare la produzione manifatturiera e far tornare fabbriche e posti di lavoro dell’industria sul territorio nazionale. In realtà il presidente eletto si trova davanti a un dilemma: per ridurre il deficit commerciale serve un dollaro più debole, che però vuol dire anche un peso minore della valuta nel commercio internazionale (quindi una minore capacità della Casa Bianca di usarla come mezzo di deterrenza verso altri paesi) e meno affari per Wall street.

Come spiega Michael Pettis, economista statunitense che insegna al Carnegie endowment for international peace, l’avvertimento di Trump “dimostra solo che la prossima amministrazione statunitense ha le idee confuse sul sistema del commercio globale e su quello dei capitali”. Il dominio del dollaro e le politiche commerciali della Casa Bianca sono due cose che si escludono a vicenda. Gli altri paesi non ricorrono al dollaro per un atto di riverenza verso Washington né perché c’è un qualche rappresentante del governo statunitense che li costringe a farlo.

Molto semplicemente la moneta americana si è imposta come mezzo di pagamento standard nel commercio internazionale perché è stabile e soprattutto perché gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo a offrire un accesso illimitato al suo mercato finanziario. Cosa che non succede, per esempio in Cina né in India, dove lo yuan e la rupia non sono liberamente convertibili e comunque danno accesso a mercati finanziari tutt’altro che liberi. Qualunque azienda che si fa pagare in yuan o rupie o rubli e convoglia gli incassi verso la Cina, l’India o la Russia corre seriamente il rischio di veder svalutare i propri soldi o addirittura di perderli.

Il progetto dei paesi emergenti di allontanarsi dal dollaro lanciando una propria valuta è comunque molto lontano dal realizzarsi, innanzitutto perché i Brics hanno interessi divergenti tra di loro (non sono pochi quelli che dividono la Cina dall’India) e poi perché in ogni caso dovrebbero accettare dei sistemi finanziari liberi, una prospettiva impensabile per i regimi che li guidano. Per questo non gli resta che convivere con il dominio del dollaro e correre il rischio di incappare nelle sanzioni finanziarie della Casa Bianca, un mezzo a cui Washington ricorre volentieri quando deve prendere di mira un paese (l’elenco è molto lungo, basti pensare alla Russia, all’Iran o al Venezuela) o anche singole persone.

Ci sono poi gli interessi di Wall street. Nel sistema attuale, fa notare ancora Pettis, i paesi del gruppo Brics, caratterizzati da sistemi mercantilisti che prosperano realizzando enormi surplus commerciali grazie alle esportazioni, mettono al sicuro i loro soldi comprando attività finanziarie statunitensi: è questo afflusso di capitali dall’estero che, oltre a far felici i finanzieri, rende il dollaro forte e stabile e ne assicura il dominio globale.

Allo stesso tempo, però, tutto questo vuol dire che la Casa Bianca accetta un consistente deficit commerciale, perché la moneta forte rende più convenienti le importazioni, e un largo ricorso all’indebitamento pubblico e privato. Se con Trump gli Stati Uniti decidono di avere un dollaro più debole per rilanciare la produzione manifatturiera sul territorio nazionale, riceveranno meno capitali dall’estero e dovranno farla finita con il dominio della loro valuta. Trump alla fine dovrà decidere cos’è più importante.

In ogni caso, osserva Brad Setser, economista statunitense del Council on foreign relations (Cfr), i dazi che Trump minaccia di scagliare contro i Brics creerebbero molti problemi. È il caso del Brasile, uno dei pochi paesi con cui gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale: il Brasile, spiega Setser, vende materie prime alla Cina e usa gli introiti per comprare merci statunitensi. Gli Stati Uniti, invece, hanno un deficit con l’India, ma eventuali ritorsioni potrebbero rendere New Delhi “meno attraente come alternativa alla Cina”.

I dazi del 100 per cento a Pechino, infine, sarebbero un bel problema per molte aziende statunitensi: la Apple, per esempio, dovrebbe pagare 350-400 dollari per iPhone in tasse al governo di Washington, facendo salire tantissimo il prezzo del suo telefono. La stessa sorte toccherebbe a molte componenti e prodotti finiti. Viste le conseguenze, conclude Setser, la minaccia di Trump appare davvero assurda, tanto che più che è stata lanciata contro qualcosa (la moneta dei Brics) che al momento nessuno ha intenzione né convenienza a fare e quindi non contro un rischio reale.

Il problema degli squilibri commerciali nell’economia globale è invece reale, come dimostra il fatto che da tempo la Cina inonda il resto del mondo di prodotti senza incentivare in alcun modo la sua domanda interna. Un fatto che non irrita solo gli Stati Uniti e l’Europa, ma anche molti paesi emergenti e in via di sviluppo, compresi gli altri componenti dei Brics.

Trump, scrive il Financial Times, forse farebbe bene a siglare un accordo simile a quello del Plaza: il 22 settembre 1985, in occasione di un vertice all’hotel Plaza di New York, i ministri delle finanze e i banchieri centrali di Francia, Giappone, Regno Unito, Repubblica Federale Tedesca, Stati Uniti e Canada firmarono un accordo che prevedeva interventi coordinati sul mercato dei cambi con l’obiettivo di contrastare il persistente apprezzamento del dollaro; tra il 1980 e il 1985 la valuta statunitense si era apprezzata di circa il 50 per cento nei confronti dello yen, del marco tedesco, del franco francese e della sterlina inglese, causando notevoli difficoltà all’industria americana.

Ma una prospettiva simile, aggiunge il quotidiano britannico, sarebbe una cattiva notizia per Wall street, che vedrebbe rallentare i capitali in arrivo sulla piazza di New York. A quel punto Trump continuerà per la sua strada, mettendosi contro la grande finanza, o farà marcia indietro? Al momento nessuno lo sa.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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