Emanuele Mengotti ha cominciato a conoscere gli Stati Uniti dal finestrino delle corriere e dalle panchine delle stazioni degli autobus. A 22 anni, dopo la laurea, ha comprato un biglietto per New York andata e ritorno. Da lì ha preso un volo per la California con l’idea di fare il viaggio a ritroso, da una costa all’altra, attraversando il sud, facendo una deviazione in Messico, risalendo verso Chicago, le cascate del Niagara e il Canada, per tornare alla fine al punto di partenza. Si spostava con i pullman Greyhound, che fanno tratte a lunga percorrenza in tutto il paese e sono abbastanza economici, o facendo l’autostop. Viaggiando di notte o dormendo nelle stazioni, per risparmiare sull’alloggio, si è confrontato subito, senza filtri, con la parte più dura, e più interessante, degli Stati Uniti.

“In quelle situazioni entri in contatto con tante storie, spesso storie difficili, che raccontano un popolo fatto in buona parte di nomadi. Senti tante storie toccanti, parlando con il tuo vicino di posto oppure guardando fuori dal finestrino, per esempio vedendo un figlio che parte per fare il militare, con in mano tanti fogli stampati con i biglietti, ognuno per ogni tratta”.

Tornato in Italia, Mengotti ha chiesto e ottenuto una green card, un visto che permette di vivere negli Stati Uniti per un periodo di tempo illimitato, e dopo un po’ si è trasferito a Los Angeles con l’idea di lavorare nel cinema. La sua storia personale suggerisce che in un certo senso fosse predestinato. “Sono nato nel 1986 al Lido di Venezia. Fin da bambino ho un ricordo della mostra del cinema, che si tiene ogni anno a settembre. Sono cresciuto in sala prima come spettatore, poi con la possibilità di frequentare il festival facendo dei piccoli lavori, quindi ho avuto modo di capire come funzionasse questo mondo”.

Il suo interesse per il cinema, prima per la recitazione e poi per la regia, è cresciuto durante gli anni dell’università a Bologna. All’inizio non pensava ai documentari. “Mi affascinava l’idea di immaginare dei mondi, di usare linguaggi, di mettere insieme delle atmosfere che fossero molto evocative”. Gli sembrava naturale provare a farlo negli Stati Uniti. “Quel paese mi affascina da sempre, passione che viene naturalmente dal cinema, ma anche dalla letteratura. E da tutto quello che la cultura americana ci ha raccontato nei decenni”.

Una volta a Los Angeles Mengotti ha fatto diversi lavori sui set di produzioni piccole e grandi, ma la svolta è arrivata esplorando le zone desertiche della California, dell’Arizona, del Nevada e dello Utah. In uno di questi viaggi si è ritrovato a Slab City, una città improvvisata fatta di tende e roulotte nel sudest della California. Un posto che per certi versi ricorda la Bombay Beach raccontata dalla regista Susanna della Sala (le due località sono abbastanza vicine). Ci vivono persone molto diverse tra loro – hippy, patrioti, artisti, neonazisti, predicatori – ma accomunate dal bisogno di essere ai margini, lontano dalla cultura statunitense dominante, che considerano una nuova Babilonia.


Da quell’esperienza è nato il primo documentario, West of Babylonia, presentato al Biografilm Festival del 2020. L’idea iniziale di Mengotti e di Marco Tomaselli, direttore della fotografia, era raccontare il posto intervistando i suoi abitanti. Poi si sono resi conto che avrebbero ottenuto un effetto più potente, oltre che più vicino alla sensibilità artistica del regista, se si fossero limitati a mettere la telecamera davanti ai protagonisti, permettendogli di raccontarsi in modo spontaneo. Loro stessi sono stati sorpresi dal risultato. “Ci siamo resi conto che in quel posto, completamente fuori dal mondo e fuori da qualsiasi tipo di regola, i più strani eravamo noi due. Persone che per tutta la loro vita sono state viste come diverse, in quel momento erano attratte dalla telecamera e subivano il fascino di due come noi, molto lontani dal loro ambiente. Avevano una gran voglia di raccontarsi e di essere ascoltati. Questo perché sono sempre state ai margini e raramente qualcuno si era interessato alle loro vite”.

La telecamera è sempre molto vicina ai volti dei protagonisti – segnati dal sole, dal vento, da anni vissuti in un contesto ostile – che si raccontano con le loro espressioni ancora prima che con le parole. Questa interazione così naturale è uno dei motivi per cui il documentario funziona e appassiona. Un altro riguarda la colonna sonora realizzata da Paolo Cognetti, che usando vari registri – a momenti drammatico, in altri richiama un immaginario magico ed evocativo – si fonde alla perfezione con le sonorità del luogo e quindi con il suo spirito.

Il secondo documentario di Mengotti sull’ovest è Rosso di sera, uscito nel 2022 e vincitore del premio del pubblico e del premio Arci Ucca al Biografilm. È apparentemente molto diverso dal precedente: dal deserto ci si sposta a Las Vegas, per certi versi la massima espressione della follia urbana, una città che esprime proprio quella cultura da cui sono scappate le persone di Slab City. I protagonisti principali sono Steve, un uomo che vive ai margini della città, Mindy, candidata repubblicana trumpiana alle elezioni locali, e Mike, un medico che presta servizio durante i primi mesi della pandemia di covid-19. In realtà i due lavori sono uniti da un filo abbastanza chiaro: “Parliamo sempre della frontiera degli Stati Uniti, del sogno americano in tutte le sue declinazioni e dell’archetipo americano. Mostrano modi diversi di vivere il sogno americano”.

La storia di Steve descrive questo legame e racchiude le distorsioni, geografiche e culturali, dell’ovest americano. Come molte città nate dal nulla nel deserto, Las Vegas ha un rapporto molto squilibrato con l’acqua: da un lato teme costantemente di restare a secco, dall’altro rischia di essere travolta dall’acqua quando ci sono tempeste e forti temporali. Per far fronte ad allagamenti potenzialmente devastanti, anni fa le autorità hanno costruito una rete di migliaia di chilometri di tunnel che scorrono sotto l’intera città, in modo che l’acqua possa defluire senza fare danni. In questa rete di tunnel vivono migliaia di persone. “Lo fanno per motivi diversi”, spiega Mengotti. “Cercano riparo ma soprattutto cercano di stare lontani dalla vista della polizia. Las Vegas è meta di tante persone povere che arrivano da tutti gli Stati Uniti. Chi vive nei tunnel, come Steve, occupa l’ultimo gradino della scala sociale”.

È difficile immaginare un’esistenza più precaria: quando piove molto l’acqua comincia a scorrere nei tunnel e chi ci vive dentro rischia di essere travolto. L’unico modo per sopravvivere è sapere in anticipo se sta per piovere. Steve vive così da più di quindici anni, almeno sei volte ha perso tutto e ha dovuto ricominciare da capo. Mentre tengono d’occhio le previsioni del tempo, lui e la compagna dipingono le pareti del tunnel, lo arredano con vasi di fiori, tavolini, quadri, un tappeto. Cercano di ritagliarsi uno spazio vitale mentre il resto della città li respinge. “Steve è l’uomo della frontiera moderna. Vive ai confini tra la città e il selvaggio west. Non si vuole allontanare dalla strip di Las Vegas, la strada dove si concentrano i casinò e i locali della città, ma allo stesso tempo è costretto a vivere in una situazione che è molto più simile a quella di chi ha scelto il deserto”.

La terza parte della trilogia è il progetto a cui Mengotti sta lavorando in questi mesi, una coproduzione tra Italia e Belgio. È un documentario ambientato a Trona, un paesino della California che, come tante altre località statunitensi, è passato nel giro di pochi anni dalla gloria all’oblio. Trona si trova in uno dei posti più ostili degli Stati Uniti dal punto di vista geografico e climatico, ma negli anni cinquanta, sessanta e settanta è cresciuto molto grazie alle attività intorno a una miniera. Quei soldi permisero di costruire una città che rappresentava perfettamente il sogno americano.

Alcune delle Polaroid scattate da Mengotti.

“C’erano bar, cinema, una scuola con degli insegnanti di un livello altissimo e gli stipendi erano ottimi”, racconta Mengotti. “Ma negli anni ottanta e novanta, con la crisi della miniera, il velo del sogno americano si è alzato e ha rivelato quello che c’era sotto. Ora a Trona la vita è durissima, ma ci sono ancora persone che ci vivono inseguendo quel sogno americano. E questo è molto interessante, perché il posto regala grandi spunti di poesia e di magia. Vorrei raccontare le storie dei giovani di quella comunità, che crescendo si devono confrontare con una serie di problemi, tra cui violenza domestica e tossicodipendenze”. Per restituire la realtà di una città sospesa nel tempo e nello spazio, Mengotti ha pensato di girare con telecamere Vhs.

La contrapposizione tra passato e presente, tra realtà e percezione, si ritrova anche in un altro progetto del regista, che non riguarda il cinema ma la fotografia. Quando viaggia per girare i suoi film, Mengotti si porta sempre dietro la sua Sx-70, una macchina Polaroid lanciata per la prima volta negli anni settanta: “Volevo andare alla ricerca del mito dell’ovest, che in realtà ha poco a che vedere con l’ovest vero, quello che si sono trovati davanti i pionieri quando sono arrivati negli Stati Uniti o quello in cui hanno vissuto i nativi americani. Mi interessa capire come è stato trasformato in intrattenimento e in propaganda. Come posti inospitali, anche grazie al cinema e alla letteratura, sono diventati affascinanti e romantici, sono diventati sinonimo di uno stile di vita. La Polaroid Sx-70, che risale agli anni in cui ci è stato raccontato e venduto il sogno americano, cattura questo contrasto. Dà conto dell’artefatto, restituisce poco la realtà, è atemporale, riesce a creare un ponte con il passato. Quindi diventa un simulacro di un mondo che mi affascina e che mi ha portato negli Stati Uniti”.

Da sapere

Questa è la terza di una serie di interviste a giovani registi che hanno fatto film e documentari sugli Stati Uniti. L’idea è dare spazio a voci che raccontano in modo originale la società americana e, di riflesso, parlano anche molto della nostra. Qui c’è la prima puntata e qui la seconda. Chi volesse proporre i suoi lavori può scrivermi a americana@internazionale.it.


Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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