Ultimamente la copertura di buona parte dei giornali statunitensi somiglia a una grande seduta di psicanalisi. Da dopo le elezioni i titoli assertivi dei commentatori hanno lasciato spazio alle domande, ai dubbi. Ci si è chiesti per settimane “perché gli americani hanno rieletto Trump?”, e da giorni ci si chiede “com’è possibile che tante persone abbiano esaltato e celebrato un assassino?”.
Sembra che la vicenda di Luigi Mangione, sospettato di aver ucciso a New York Brian Thompson, l’amministratore delegato di un’azienda di assicurazioni sanitarie, stia costringendo a fare delle valutazioni sullo stato di salute della società più di altri eventi recenti, e anche più delle elezioni.
Forse dipende dalla dinamica dell’omicidio (Thompson è stato colpito alla schiena da un proiettile sparato da una pistola con silenziatore in centro a Manhattan), dal fatto che Mangione non corrisponde alla classica descrizione dell’estremista politico (è cresciuto in una ricca famiglia del Maryland, si è laureato in una delle università più prestigiose del paese e per un po’ ha lavorato nel settore tecnologico), e appunto dalla disinvoltura con cui tante persone si sono schierate dalla sua parte e hanno attaccato le istituzioni e la polizia nei giorni della fuga, prima dell’arresto.
Più di un commentatore ha fatto un parallelo tra la situazione attuale e gli Stati Uniti della cosiddetta Gilded age, l’epoca tumultuosa tra la guerra civile e l’inizio del novecento. Come oggi, il paese viveva una situazione di apparente serenità e benessere che mascherava gravi problemi e un generale disagio sociale (per questo l’epoca era “gilded”, dorata, e non “golden”, d’oro, secondo una delle tante grandi intuizioni di Mark Twain): era un periodo di rapidi cambiamenti tecnologici, di immigrazione di massa, in cui la ricchezza di alcune persone e dei grandi gruppi imprenditoriali e bancari cresceva tantissimo, come le disuguaglianze.
Sul New York Times Zeynep Tufekci ha scritto che quelle condizioni crearono i presupposti per l’aumento della violenza politica: “Le vaste disuguaglianze alimentarono movimenti che presero di mira i grandi imprenditori, i politici e i giudici. Nel 1892 un anarchico tentò di assassinare l’industriale Henry Clay Frick dopo un lungo conflitto tra le guardie di sicurezza Pinkerton e gli operai. Nel 1901 un simpatizzante anarchico uccise il presidente William McKinley. Non solo: come ha scritto lo storico Jon Grinspan, tra il 1865 e il 1915 un presidente subì una procedura di impeachment, tre vennero assassinati e ci furono due elezioni presidenziali vinte da chi aveva preso meno voti a livello nazionale. E nessuno dei due partiti politici sembrava capace di affrontare i problemi che sconvolgevano la vita degli americani”.
Tufekci chiarisce che negli Stati Uniti di oggi le cose vanno molto meglio rispetto all’inizio del novecento, ma le due epoche si somigliano per il pessimismo dei cittadini rispetto alla direzione del paese, per l’ostilità diffusa nei confronti del potere in senso ampio, per la disinvoltura con cui tante persone accettano la violenza come risposta legittima ai problemi (senza contare che oggi negli Stati Uniti ci sono decine di milioni di armi in più rispetto a un secolo fa).
Secondo un sondaggio del 2023, è in aumento il numero di americani che concordano con l’affermazione “i patrioti potrebbero dover ricorrere alla violenza per salvare il paese”. E il “contratto sociale” si sta sfaldando in modo visibile. Gli americani esprimono sempre meno fiducia in molte istituzioni. Una maggioranza consistente di persone afferma che il governo, i dirigenti d’azienda e i mezzi d’informazione li inganna di proposito. In netto contrasto con le generazioni più anziane, la maggioranza dei giovani afferma di non credere più che il sogno americano sia realizzabile. In questo “umore nazionale” diventa quasi normale per una parte rilevante della popolazione minimizzare la gravità della violenza: si può arrivare a giustificare un omicidio, dando la colpa ai fallimenti morali della vittima, o a considerare prigionieri politici persone che hanno cercato di annullare con la violenza il risultato di un’elezione.
Il problema non è solo che la violenza aumenta in termini assoluti ma anche che cambia natura e diventa più difficile da controllare. Ha scritto Adrienne LaFrance sull’Atlantic: “La linea che separa una società normale e funzionante da una catastrofica ‘decivilizzazione’ può essere superata con un singolo atto di caos. Per questo motivo gli esperti di violenza politica sono allarmati dallo sfacciato omicidio di Manhattan e ancora di più dalla reazione esultante di una parte del paese: è il segno di una società che si è già troppo abituata agli spargimenti di sangue e alle condizioni che li amplificano. Quando la violenza si aggrava, tende a coinvolgere – e a minacciare – persone di tutte le ideologie. Quindi, se nelle prime fasi di un’impennata di violenza le forze dell’ordine possono vedere chiaramente che la minaccia maggiore arriva dagli estremisti di destra, come è successo negli Stati Uniti negli ultimi anni, man mano che l’attitudine alla violenza cresce, le idee politiche di chi ci fa ricorso si fanno più confuse. Questo in parte perché i periodi di maggiore violenza tendono a coincidere con riorganizzazioni sociali e politiche in generale, momenti in cui le identità di partito o di gruppo sono in movimento, come negli Stati Uniti in questo momento”.
Tufekci chiude il suo articolo con un po’ di ottimismo, facendo notare che i traumi della Gilded age furono seguiti da un periodo di cambiamenti positivi, in cui il paese “costruì una rete di sicurezza sociale, ampliò l’istruzione pubblica e introdusse regole e infrastrutture che hanno migliorato notevolmente la salute e il benessere di tutti gli americani”. Ma date le condizioni attuali della politica statunitense, è molto probabile che le cose peggioreranno ancora prima di cominciare a migliorare.
Durante la seconda amministrazione Trump cresceranno ancora la polarizzazione e lo scontro sociale e potrebbero aggravarsi quelle condizioni che portano sempre più americani a diffidare delle istituzioni. Da anni il congresso fa sempre più fatica a fare il suo lavoro, impiega mesi per approvare leggi di bilancio e di stanziamenti che dovrebbero essere di routine, per non parlare delle riforme strutturali che servirebbero per mettere mano ai principali problemi del paese, a cominciare da quelli del sistema sanitario. Non è un caso se l’ultima introspezione nazionale sia cominciata dopo l’omicidio di un dirigente del settore assicurativo.
Gli Stati Uniti spendono un sesto del loro pil per l’assistenza sanitaria (più di altri paesi ricchi), ma l’8 per cento dei cittadini non è assicurato e circa il 23 per cento è “sottoassicurato”, cioè ha un’assicurazione ma rischia comunque di non potersi permettersi determinate cure. Secondo la politologa Miranda Yaver, assistente alla cattedra di politica e gestione sanitaria dell’università di Pittsburgh, nel 2022 più di un americano su quattro ha dichiarato di ritardare o rinunciare alle cure mediche, farmaci da prescrizione, cure mentali o dentistiche a causa dei loro costi, e il 17 per cento dei consumatori di insulina ha detto nel 2021 di razionare il farmaco. Negli ultimi anni i costi delle assicurazioni sono ulteriormente aumentati e sempre più persone si indebitano per sostenerli. Nel 2022 un’inchiesta di Kff Health News ha stimato che le persone in questa condizione potrebbero essere cento milioni, quasi un terzo della popolazione. Un sondaggio Gallup del novembre 2023 ha rilevato che solo il 31 per cento degli statunitensi ha fiducia nel sistema sanitario. Un sentimento che si spiega in buona parte con il ruolo delle compagnie assicurative.
Thompson, l’uomo ucciso il 4 dicembre, era l’amministratore delegato della UnitedHealthcare, un’azienda che fa parte di UnitedHealth Group, un conglomerato di assicurazioni sanitarie che è valutato 560 miliardi di dollari e copre più di cinquanta milioni di statunitensi. Nel 2023 UnitedHealthcare aveva un fatturato di 281 miliardi di dollari e durante il mandato di Thompson come amministratore delegato, cominciato nel 2021, i profitti annuali erano passati da dodici a sedici miliardi di dollari. L’anno scorso il dirigente ha ricevuto un compenso di oltre dieci milioni di dollari.
In uno studio condotto su 1.340 adulti statunitensi, Yaver ha scoperto che più di una persona su tre (il 36 per cento) si è vista negare una prestazione sanitaria dalle assicurazioni almeno una volta, e tra quelle ce ne sono molte che hanno subito più di un rifiuto. Per tantissimi americani le compagnie non sono dei fornitori di cure mediche ma piuttosto un ostacolo per riceverle, e la UnitedHealthcare è un simbolo di queste storture. È l’azienda con il più alto tasso di rifiuto delle richieste di risarcimento (il 32 per cento, il doppio della media del settore) e negli ultimi anni è stata accusata di aver attuato pratiche scorrette o vere e proprie truffe. La più grave riguarda il programma Medicare Advantage, un piano sanitario finanziato dal governo ma gestito dalle compagnie private. In base al programma, le compagnie ricevono dal governo una tariffa per ogni paziente che assicurano e possono chiedere ulteriori rimborsi se emergono spese che fanno aumentare il costo delle prestazioni. Si è scoperto che la UnitedHealthcare e altri assicuratori hanno presentato centinaia di migliaia di diagnosi false per disturbi che non erano mai stati diagnosticati dai medici curanti, sottraendo di fatto al governo cinquanta miliardi di dollari tra il 2018 e il 2021.
Dall’altra parte, l’azienda massimizza i profitti riducendo all’osso le prestazioni per malattie e diagnosi reali. Nel 2020 ha rilevato la NaviHealth, un’azienda che ha sviluppato un algoritmo che fornisce raccomandazioni sulle cure, e che viene usato anche per gestire la lista di pazienti associati al programma Medicare Advantage. Secondo una class action del 2023, l’algoritmo ha un “tasso di errore noto” del 90 per cento. La causa citava storie strazianti: un uomo del Tennessee ha avuto un grave infortunio alla schiena, è stato ricoverato per sei giorni, poi è stato trasferito in una casa di cura per undici giorni e a quel punto è stato informato dalla UnitedHealth che le sue cure sarebbero state interrotte entro due giorni. Dopo appelli e rettifiche, l’uomo ha lasciato la casa di cura ed è morto a distanza di quattro giorni.
Prima ancora gli investigatori del governo avevano scoperto che la UnitedHealthcare usava degli algoritmi per identificare i fornitori di cure mentali che secondo la compagnia stavano curando “troppo” i loro pazienti, facendo lievitare i costi; i medici ricevevano una telefonata da un operatore dall’azienda che contestava i costi e poi annunciava il taglio dei rimborsi. Alcuni stati hanno reso illegale questa pratica, che rimane diffusa in molte zone del paese. Questo ci riporta a monte, alle carenze delle istituzioni, all’incapacità del governo di farsi carico di un problema evidente, e alla sfiducia delle persone. Ha spiegato Jia Tolentino sul New Yorker che “non esiste un’unica autorità di regolamentazione per le compagnie assicurative, anche quando si scopre che violano la legge”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
Iscriviti a Americana |
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Americana
|
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
|
Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it