Durante la realizzazione di No other land – il documentario che ho girato insieme a Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal sulla lotta e la resistenza degli abitanti palestinesi della regione di Masafer Yatta, in Cisgiordania, di fronte ai tentativi israeliani di mandarci via – una domanda tornava con insistenza: qualcuno lo guarderà? Qualcuno s’interesserà?
Da quando il film è stato presentato al festival internazionale del cinema di Berlino nel 2024, la risposta è stata chiara: le migliaia di messaggi di solidarietà, le richieste su come poterlo guardare e gli inviti ai festival di tutto il mondo sono stati una dimostrazione del forte desiderio di ascoltare la nostra storia. Ora il film è perfino candidato a un Oscar.
È un risultato straordinario non solo per noi autori, ma anche per gli attivisti, gli amici e tutti i nostri alleati che trascorrono molto tempo sul campo, rischiando violenze e arresti nella lotta contro l’oppressione e la colonizzazione. È anche un riconoscimento agli avvocati che lavorano con ostinazione nei tribunali israeliani, determinati ad aiutare in ogni modo i palestinesi che vogliono restare a vivere sulle loro terre, in un sistema progettato per legittimare l’occupazione.
Ma soprattutto è una vittoria per la gente di Masafer Yatta, un gruppo di piccoli centri abitati all’estremità meridionale della Cisgiordania occupata, la cui resistenza riflette l’incrollabile attaccamento alla loro terra. Mentre l’occupazione tenta di cancellarne l’esistenza, la loro perseveranza continua a motivarci a resistere, a documentare e a combattere per la giustizia.
Nonostante il successo avuto dal film ai festival, tra i giornalisti e tra il pubblico, la situazione sul campo sta rapidamente peggiorando e il futuro sembra cupo. Negli ultimi sedici mesi i coloni e l’esercito israeliano hanno approfittato del clima di guerra per ridefinire la realtà della regione a favore dei coloni e dei loro avamposti, intensificando i tentativi di espellerci dalle nostre terre. In questi giorni l’esercito israeliano sta conducendo una vasta operazione di demolizioni a Khalet A-Daba, radendo al suolo case, servizi igienici, pannelli solari e alberi.
Anche se in questo articolo non posso parlare di tutti gli attacchi ed espropri più recenti ai danni dei residenti palestinesi, ho voluto evidenziare alcuni degli eventi più significativi delle ultime settimane per mostrare che, mentre riceviamo riconoscimenti a livello internazionale, la nostra realtà continua a essere quella di una lotta quotidiana contro l’annientamento.
Khaled Musa Abdel Rahman al Najjar, 72 anni, vive con dieci suoi familiari nella comunità di Qawawis. Spesso la notte resta sveglio per timore degli attacchi dei coloni. “L’insediamento di Mitzpe Yair si trova a un chilometro a sudest, e dopo l’inizio della guerra nell’ottobre 2023 è stato creato un avamposto illegale a quattrocento metri di distanza”, mi dice. “I coloni hanno anche costruito una struttura in legno a duecento metri da casa mia, sulla quale hanno una visuale perfetta”.
Il 3 gennaio, poco dopo le tre di notte, Al Najjar ha sentito un cane abbaiare rumorosamente all’esterno di casa sua. “Ho preso la torcia e sono andato a controllare l’asino, che avevo legato per paura che i coloni lo rubassero. Ma non ho visto niente, perciò sono tornato dentro”.
Dieci minuti dopo ha sentito di nuovo abbaiare. “Sono tornato fuori e, all’improvviso, ho visto un colono avvicinarsi”, racconta Al Najjar. “Mi ha detto ‘Vieni qua’, e ha cercato di prendermi la torcia, ma io l’ho respinto. Altri tre coloni a volto coperto hanno cominciato a correre verso di me brandendo dei manganelli”.
“Ho cominciato a gridare per chiedere aiuto ma nessuno mi ha sentito”, continua. “Il primo mi ha colpito al braccio, facendomi cadere la torcia. Gli altri si sono uniti a lui, mi hanno scaraventato a terra e mi hanno colpito in tutto il corpo, finché non ho perso conoscenza. Mi sono sentito come se fossi caduto in un vespaio”.
Dopo averlo picchiato per diversi minuti i coloni sono andati via, lasciandolo a terra sanguinante. “Ho raccolto le forze e sono tornato in casa, con la testa e la fronte sanguinanti. Non riuscivo a parlare”. Poco dopo sono arrivati alcuni attivisti stranieri, che hanno accompagnato Al Najjar a prendere un’ambulanza che lo ha portato in ospedale a Yatta, la città più vicina.
Ricevute le prime cure, Al Najjar è stato poi trasferito in un ospedale più grande a Hebron, dove una tac ha rivelato un’emorragia cerebrale. “Sono stato ricoverato in terapia intensiva in condizioni critiche”, racconta. “Due giorni dopo sono stato dimesso, ma mi sto ancora riprendendo da quell’aggressione brutale”.
Non è la prima volta che Al Najjar è attaccato: nel 2001 un colono gli sparò allo stomaco usando una pistola presa in prestito da un soldato israeliano. Ancora oggi il corpo di Al Najjar ne porta le cicatrici.
Tuttavia, nonostante le gravi ferite e gli attacchi ripetuti, lui continua a resistere. “Nulla di ciò che fanno mi convincerà a lasciare questo posto”, mi dice mentre lo porto a casa dopo le dimissioni dall’ospedale. “Voglio solo vedere i miei nipoti e trascorrere del tempo con loro a casa mia”.
Nonostante tutto lo sconforto e la mancanza di speranza, persone come Khaled Al Najjar – che si rifiutano di lasciare la loro terra anche se subiscono brutali aggressioni – ci spingono a resistere, anche se ci sentiamo impotenti.
Il furto delle terre
Dopo il 7 ottobre 2023, i coloni hanno costruito almeno otto nuovi avamposti in diverse parti della zona di Masafer Yatta. Nel villaggio di Tuba i coloni di Havat Maon hanno creato un nuovo avamposto non residenziale – alcune altalene e una bandiera israeliana – a soli cento metri dalle case della famiglia Awad. Spesso i coloni si danno appuntamento lì prima di provocare e attaccare i residenti palestinesi.
Il pomeriggio del 25 gennaio Ali Awad, 26 anni, era seduto nella sua jeep parcheggiata vicino a casa, quando ha notato sei coloni a volto coperto correre verso di lui. Uno aveva un fucile, un altro una bottiglia di benzina. “Volevo mettere in moto l’auto e scappare, ma poi ho visto mio cugino piccolo e i miei nonni anziani”, racconta. “Sono uscito e sono corso verso di loro per dirgli di allontanarsi. Poi ho sentito un rumore di vetri infranti”.

Quando si è voltato, Awad ha visto una nube di fumo alzarsi. I coloni avevano dato fuoco alla sua auto. “Sapevano che usavo il fuoristrada per portare i bambini a scuola e per trasportare gli abitanti in città per sbrigare alcune commissioni da quando l’esercito aveva bloccato la strada percorribile dalle auto normali”, spiega.
Dopo aver dato fuoco alla jeep di Awad i coloni hanno rivolto le loro attenzioni al fienile, che conteneva dieci tonnellate di mangime, e hanno incendiato anche quello. “Per fortuna le fiamme non si sono diffuse”, dice Awad.
Ma la situazione è presto degenerata. Uno dei coloni è entrato con la forza a casa dello zio di Awad, Mahmoud, dove c’erano i suoi cugini piccoli Jouri, 6 anni, e Jude, 9 anni. “L’attacco è durato circa dieci minuti”, racconta Awad. “Il colono ha rotto i vetri in cucina, ha distrutto due mobili e ha mischiato le riserve di farina e il riso nella dispensa. Ha anche rovesciato un contenitore da cento chili di yogurt e ha spaccato un lavabo”.
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania
Successivamente la famiglia ha scoperto che probabilmente anche i bambini erano stati colpiti. “Jouri aveva un segno visibile di un colpo sulla schiena, mentre Jude era stato colpito al braccio destro”, riferisce. Awad ha denunciato l’incidente alla polizia israeliana, ma finora non ha ricevuto aggiornamenti.
Quattro giorni dopo, quando la famiglia si stava ancora riprendendo dall’attacco, uno dei coloni che fa il pastore è arrivato con i poliziotti e i soldati israeliani portando il suo gregge a pascolare su un terreno di proprietà palestinese.
“Quando mi sono svegliato ho trovato un esercito di fronte a casa mia”, racconta Awad. Si è scoperto in seguito che il colono diceva di essere stato attaccato da alcuni abitanti di Tuba che gli avevano rubato il telefono. Awad non era tra le persone accusate, ma è stato comunque arrestato insieme ad altri quattro abitanti del villaggio. “I soldati mi hanno umiliato durante l’arresto”, racconta Awad. “Mi hanno gettato faccia a terra sul pianale della jeep militare. Erano seduti intorno a me, e uno di loro mi ha tenuto il piede sulla schiena per tutto il tragitto. La mia mano destra sanguinava per quanto avevano stretto le manette”.
Awad ha tenuto le manette per ore prima di essere trasferito al commissariato di polizia dell’insediamento di Kiryat Arba per essere interrogato. Lui e altri due detenuti sono stati liberati in giornata, mentre altre due persone, tra cui suo zio Khalil, sono state trattenute per giorni prima di essere rilasciate.
Il ruolo dei soldati
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania, per esempio costringendoli a chiedere un permesso preventivo all’amministrazione civile ogni volta che vogliono andare nei loro campi coltivati. In molti casi i coloni entrano su questi terreni illegalmente, mentre ai legittimi proprietari palestinesi è impedito l’accesso.
Nel villaggio di Qawawis l’esercito aveva dato l’autorizzazione ad alcuni proprietari terrieri – tra cui la famiglia Hoshiyah – per andare nei loro campi il 14 gennaio, ma poi dieci minuti prima dell’orario stabilito per cominciare i lavori agricoli ha annullato il permesso senza spiegazioni. Una settimana dopo, il 22 gennaio, l’esercito ha autorizzato la famiglia ad accedere alle sue proprietà.
Quel giorno, di mattina presto, gli Hoshiyah hanno preso due trattori e sono andati ad arare, ma hanno trovato i coloni ad aspettarli. “Ero vicino a casa verso le 8.30 quando ho visto un gruppo di circa trenta coloni da Susya, Mitzpe Yair e altri avamposti vicini che correva verso la terra degli Hoshiyah per impedirgli di arare i campi con i trattori”, racconta Taleb al Nuamin, un abitante del luogo. “La persona alla guida del trattore ha fatto inversione, tornando verso Qawawis per evitare i coloni, tra cui alcuni avevano il volto coperto ed erano armati di bastoni e altre armi”, continua. “Uno dei coloni ha bucato gli pneumatici di un trattore con un coltello, costringendo il conducente a fuggire verso Yatta. L’altro guidatore è riuscito a nascondere il trattore tra le case”.
Le forze armate e i funzionari dell’amministrazione civile presenti sul posto “non sono intervenuti”, sottolinea Al Nuamin. “Mentre noi chiamavamo la polizia israeliana informandola dell’incidente, i coloni hanno portato un gregge di pecore sui nostri campi di grano. Io, i miei figli e altri abitanti del villaggio abbiamo urlato ai coloni di portarle via, ma la polizia di frontiera ci ha impedito di avvicinarci”.
Dopo un po’ gli agenti hanno allontanato i coloni e se ne sono andati. Ma poco dopo circa quindici coloni sono tornati: uno di loro imbracciava un fucile, gli altri brandivano delle mazze. “Hanno lanciato sassi contro di noi, e alcuni palestinesi hanno reagito lanciando pietre per proteggere le loro case”, racconta Al Nuamin. “Ho chiamato più volte la polizia, che a un certo punto ha detto di essersi avviata, ma non è mai arrivata”.
I coloni hanno raggiunto i contadini palestinesi e le loro famiglie. “Mio nipote di 21 anni, Nour al Din Abdul Aziz Abu Arab, è stato colpito alla fronte da una pietra, che gli ha provocato una seria emorragia”, dice Al Nuamin. “Jibreel Abu Aram, di 65 anni, è stato colpito alla gamba destra. Un altro abitante, Jaafar Nuaman, 29 anni, è stato colpito alla nuca ed è stato intossicato dallo spray al peperoncino usato da un colono”.
Jibreel, a cui l’anno scorso hanno demolito la casa, è stato arrestato nella sua abitazione ed è ancora detenuto. A causa dei traumi subiti – una frattura al cranio e un’emorragia cerebrale – Nour Al Din il giorno dopo è stato operato e ora è a casa in convalescenza.
Caos di stato
Il 2 febbraio, intorno alle 20, ho ricevuto una telefonata in cui mi avvisavano di un attacco dei coloni al villaggio di Susiya. Mi sono sbrigato a radunare un po’ di amici e ci siamo messi in macchina per arrivare il prima possibile.
Quando siamo arrivati abbiamo scoperto che decine di coloni si erano diretti verso la casa del mio amico Nasser Nawajah, prendendola a sassate, mentre la sua famiglia terrorizzata era rinchiusa all’interno. Hanno distrutto la sua auto, squarciando gli pneumatici con dei coltelli, poi si sono mossi verso casa di suo fratello, dove hanno rotto la cisterna.
Dopo che i primi aggressori sono andati via, ne è arrivata un’altra quindicina dal vicino insediamento ebraico di Susya. Mentre si lanciavano contro di noi, Nawajah ha chiamato la polizia, che era stata già avvertita almeno un quarto d’ora prima ma non era ancora arrivata. Alcuni coloni hanno lanciato pietre verso di noi, mentre altri hanno preso di mira una casa vicina, fracassando un’auto parcheggiata, distruggendo la telecamera di sicurezza e prendendo a sassate l’edificio. La famiglia all’interno, terrorizzata, ha barricato la porta e gridava aiuto.
In tutto quel caos io e i miei amici abbiamo provato a documentare quello che stava succedendo. Alla fine, dopo mezz’ora, è arrivata un’auto della polizia e i coloni si sono ritirati. Noi abbiamo acceso le torce e abbiamo gridato all’agente di arrestarli, ma non si è mosso finché i coloni non erano già tornati all’avamposto. Quando è andato a cercarli, erano scappati. Uno dei veicoli usati dai coloni era rimasto abbandonato per strada. Abbiamo chiesto all’agente di confiscarlo, ma si è rifiutato di farlo.
Nel frattempo, nel vicino villaggio di Umm al Khair, dal 2 febbraio i coloni hanno cominciato a usare le ruspe per scavare accanto alle case dei palestinesi e al centro comunitario, che comprende anche un parchetto per i bambini. Secondo il capo del consiglio regionale di Har Hevron, vogliono creare un parco per soli coloni all’interno del villaggio palestinese.
Affermano che sono terre dello stato, nonostante quei terreni siano da decenni di proprietà dei palestinesi. Il progetto è un chiaro esempio di come lo stato israeliano usi l’espansione delle colonie per strangolare le comunità palestinesi.
Da anni Israele tenta di dissimulare il volto brutale della sua occupazione con una maschera “democratica”. Usando vari concetti legali discutibili come quello delle “costruzioni illegali” (su una terra occupata illegalmente), ha cercato di demolire e cancellare intere comunità palestinesi dalle terre dove vivono da decenni, se non da secoli.
In risposta alle domande di +972 un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato di non essere a conoscenza degli incidenti citati in questo articolo e che le violazioni della legge da parte di cittadini israeliani rientrano nella giurisdizione della polizia israeliana. La polizia non ha risposto alle richieste di +972 su nessuno degli incidenti.
Molti degli spettatori di No other land in tutto il mondo non sono poi così lontani da questa realtà, come potrebbero pensare. Anche loro hanno una parte di responsabilità. Senza il supporto dei loro governi – la copertura diplomatica e l’aiuto economico e militare incondizionato – Israele non avrebbe potuto sistematicamente farsi beffe del diritto internazionale per decenni.
In questo senso No other land non è stato solo uno sforzo creativo per me e gli altri registi: è stato un atto di resistenza. Portando la storia dei villaggi di Masafer Yatta – e la questione della pulizia etnica e delle demolizioni di case in Cisgiordania – in tutto il mondo, non abbiamo voluto suscitare dolore o pietà, ma spingere le persone a fare qualcosa ed esortarle a unirsi alla nostra lotta contro l’occupazione.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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