“Ti stiamo cercando, vivo o morto”. Questa è una delle minacce che Herlín Odicio riceve ogni giorno sul suo cellulare. Il leader indigeno cacataibo dell’Amazzonia centrale peruviana è stato costretto a nascondersi a causa della sua attività contro i narcotrafficanti che cercano di rubargli la terra. “Abbiamo denunciato un’infinità di volte la presenza di piantagioni di coca nella nostra terra, ma non è mai successo niente”, dice Odicio.
Le minacce di morte si sono moltiplicate dopo la decisione del leader indigeno di rifiutare un’offerta di 500mila sol peruviani (115mila euro) per ogni volo carico di droga in partenza da una pista aerea clandestina situata nel suo territorio. “Mi stanno dando la caccia”, ammette al telefono da una località segreta in Perù. “Non posso camminare liberamente nella mia comunità. I narcotrafficanti mi stanno cercando”.
Le comunità native dell’Amazzonia centrale peruviana sono vittime di minacce, abusi e violenza da parte delle bande di narcotrafficanti che hanno preso di mira le loro terre per coltivare foglie di coca, usate per produrre la cocaina. Le restrizioni legate al covid-19 hanno reso ancora più vulnerabile questa regione remota, rallentando l’azione dello stato per proteggere le terre e combattere la coltivazione illegale di coca. Il boom della coltivazione di coca – secondo le Nazioni Unite il Perù è il secondo produttore mondiale di cocaina dopo la Colombia – ha pesanti ripercussioni per i popoli nativi.
I criminali approfittano della crisi per impossessarsi di terreni per la coltivazione della coca e per lo sfruttamento del legname
A febbraio, nell’arco di soli dodici giorni, i due leader cacataibo Yénser Ríos, 30 anni, ed Herasmo García, 28 anni, sono stati ritrovati senza vita nella provincia Padre Abad nella regione di Ucayali, un’area con molte piantagioni di coca e piste aeree clandestine per il trasporto della cocaina in Bolivia. Il capo della polizia investigativa peruviana, il generale Vicente Tiburcio, ha dichiarato che le forze dell’ordine stanno indagando per verificare se l’uccisione dei due giovani sia stata una vendetta da parte dei coltivatori di coca. Tiburcio ha precisato che Ríos doveva pattugliare il territorio della sua comunità e aveva partecipato alle operazioni per eliminare le coltivazioni di coca.
Nell’aprile del 2020 Arbildo Meléndez, un altro leader cacataibo, è stato ucciso vicino al villaggio di Unipacuyacu. Meléndez aveva denunciato la presenza di bande di trafficanti e piste aeree segrete alle autorità, invitando la Commissione interamericana per i diritti umani a chiedere allo stato peruviano di proteggerlo.
Oltre a Meléndez, Ríos e García altri quattro abitanti dell’Amazzonia peruviana sono stati uccisi durante la pandemia, in un momento in cui i criminali approfittano della crisi per impossessarsi di terreni per la coltivazione della coca e per lo sfruttamento del legname e di colture redditizie come l’olio di palma. La vittima più recente è Estela Casanto, 55 anni, indigena asháninka il cui cadavere è stato rinvenuto il 12 marzo.
“La famiglia ha trovato macchie di sangue nel suo letto”, racconta Teddy Sinacay, presidente di Ceconsec, un’organizzazione composta da 120 comunità asháninka nell’Amazzonia centrale peruviana. “È stata picchiata e portata via con la forza dalla sua casa. L’hanno trasportata per quaranta metri e gettata in un canale. Poi hanno continuato a trascinarla, colpendola alla testa con una pietra”. La polizia sta indagando sulle circostanze dell’omicidio, ma la morte di Casanto è l’ennesima prova della precarietà delle rivendicazioni indigene sulla terra e delle conseguenze spesso mortali per chi cerca di affermarle.
Sfiducia nelle istituzioni
I popoli nativi dell’Amazzonia accusano la polizia e gli inquirenti di lasciare che gli assassini agiscano con impunità. Dall’inizio della pandemia in Perù sono stati uccisi nove attivisti per l’ambiente, ma in nessun caso si è arrivati a una condanna per omicidio.
Il presunto assassino di Meléndez è stato arrestato e rilasciato su cauzione con l’accusa di omicidio colposo. Gli inquirenti hanno creduto alla tesi secondo cui il colpo d’arma da fuoco gli sarebbe partito per errore.
“Per lo stato non esistiamo”, sottolinea Berlín Diques, leader indigeno di Ucayali. “Siamo minacciati e vessati”.
“Abbiamo perso la fiducia nella giustizia e nella polizia”, gli fa eco Odicio, che per qualche giorno ha avuto una scorta ma ora è privo di qualsiasi protezione.
Secondo Álvaro Másquez, avvocato specializzato nei diritti dei nativi per l’Istituto di difesa legale di Lima, le norme attuali favoriscono l’acquisto delle terre indigene da parte di compratori esterni. Gli abitanti originari della regione, invece, spesso devono aspettare decenni prima di ottenere un pezzo di terra.
“I trafficanti di droga e legname hanno l’abitudine di corrompere i funzionari che gestiscono le concessioni agricole e l’assegnazione delle terre”, spiega Másquez. Allo stesso tempo “il razzismo strutturale nel sistema giudiziario” garantisce l’impunità a chi si impossessa illegalmente della terra.
L’insicurezza a proposito della proprietà della terra ha trasformato gli indigeni in un bersaglio facile per i trafficanti, che usano “reti criminali solide” per sfruttarne i punti deboli, sottolinea Vladimir Pinto di Amazon Watch, un’organizzazione che protegge la foresta pluviale e i diritti dei popoli nativi.
Mentre le restrizioni dovute alla pandemia cominciano ad allentarsi, nel territorio indigeno dei cacataibo è appena ripresa l’attività per eliminare le piantagioni di coca (passata da una media di 25mila ettari all’anno prima della pandemia a circa seimila ettari nel 2020).
Diques teme le rappresaglie dei narcotrafficanti: “Noi indigeni saremo carne da cannone”, spiega. “Quando le autorità andranno via, saremo presi di mira. Non vogliamo piangere altri morti”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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