Per il secondo sabato di seguito, il 7 settembre decine di migliaia di israeliani sono scesi in strada a Tel Aviv, Haifa e in altre città del paese per spingere il governo di Benjamin Netanyahu a firmare un accordo con Hamas che metta fine alla guerra e garantisca il rilascio dei circa cento ostaggi che si trovano ancora nella Striscia di Gaza. Le grandi manifestazioni del 1 settembre erano scoppiate sull’onda del dolore e della rabbia che avevano sopraffatto la popolazione dopo la notizia che l’esercito aveva recuperato nel sud del territorio palestinese i corpi di sei ostaggi, catturati da Hamas durante l’attacco condotto in Israele il 7 ottobre 2023. Il giorno seguente uno sciopero annunciato dal sindacato Histadrut aveva in parte paralizzato Israele.

Nelle proteste del 7 settembre, che secondo gli organizzatori sono state le più partecipate nella storia del paese con 500mila persone a Tel Aviv e 250mila nelle altre città, i manifestanti hanno ribadito la convinzione – sempre più diffusa nell’opinione pubblica israeliana nonostante la propaganda del governo – che la pressione militare non salverà gli ostaggi e che l’unica soluzione è il dialogo che porti a un accordo per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e uno scambio tra i prigionieri nelle mani di Hamas e i palestinesi detenuti in Israele.

Netanyahu però non dà segni di ammorbidire la sua posizione. Né le proteste di piazza né le pressioni diplomatiche delle potenze internazionali, che nelle ultime settimane si sono moltiplicate, hanno convinto il primo ministro israeliano a fare concessioni per una tregua. Anzi, il 2 settembre è apparso in tv per presentare agli israeliani il suo piano per il futuro della Palestina.

In completo nero e con una bacchetta in mano, Netanyahu era posizionato davanti a un’enorme mappa interattiva. Un’immagine mostrava una grande Israele con una piccola Striscia di Gaza evidenziata in giallo e con i contorni in rosso. Nessuna traccia della Palestina. Un’altra invece era più ravvicinata e raffigurava in dettaglio la Striscia di Gaza, al cui interno apparivano dei disegni: missili, uomini incappucciati e sacchi di dollari. Frecce verdi indicavano il loro ingresso attraverso la frontiera tra la Striscia di Gaza e l’Egitto.

Con questa presentazione, Netanyahu intendeva ribadire la necessità che l’esercito israeliano continui a controllare questo passaggio per impedire ad Hamas di usare i tunnel presenti nella zona per rifornirsi di armi. Nelle ultime settimane il leader israeliano aveva già chiarito più volte il suo rifiuto a ritirarsi dal corridoio Filadelfi, una zona cuscinetto lungo il confine con l’Egitto. Proprio questo punto è diventato uno dei nodi più difficili da sciogliere nel corso dei negoziati portati avanti dagli Stati Uniti insieme all’Egitto e al Qatar.

Il corridoio Filadelfi è una striscia di terra disabitata lunga circa quattordici chilometri e larga cento metri che percorre il confine tra Gaza e l’Egitto e comprende il valico di Rafah. La sua estremità nordoccidentale arriva al mar Mediterraneo, quella sudorientale al valico di Kerem Shalom, controllato da Israele. Filadelfi è il nome in codice usato dagli israeliani, mentre gli egiziani e i palestinesi lo chiamano Salah al Din, in onore a Saladino, il fondatore della dinastia degli Ayyubidi che sconfisse i crociati a Gerusalemme nel 1187.

In base al trattato di Camp David del 1979, che mise fine all’occupazione israeliana della penisola del Sinai e portò alla riapertura del canale di Suez, fu stabilita una zona cuscinetto pattugliata dall’esercito israeliano con l’obiettivo di fermare il flusso di armi e altri materiali vietati verso la Striscia di Gaza – occupata da Israele – e di impedire la circolazione incontrollata di persone tra il territorio palestinese e l’Egitto.

Quando nel 2005 Israele ritirò dalla Striscia di Gaza le sue truppe e i novemila coloni che vivevano in venticinque insediamenti illegali, un accordo definì l’area demilitarizzata e autorizzò l’Egitto a sorvegliare la sua parte con 750 soldati, lasciando all’Autorità nazionale palestinese la responsabilità dell’altro lato del confine. Ma due anni dopo Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza, i pattugliamenti furono interrotti e il territorio palestinese fu completamente isolato.

Da allora Il Cairo ha inasprito i controlli e limitato la possibilità di movimento per i palestinesi. Inoltre ha continuato a distruggere i tunnel scavati dai palestinesi per trasportare illegalmente persone e armi dentro e fuori la Striscia, anche se Israele ha più volte messo in dubbio l’efficacia delle operazioni egiziane. Nonostante le restrizioni, il valico di Rafah è rimasto un passaggio fondamentale per i palestinesi, l’unico della Striscia di Gaza non controllato direttamente da Israele.

Dopo l’inizio dell’offensiva israeliana il 7 ottobre, è diventato l’ingresso principale per l’aiuto umanitario nel territorio sotto assedio e l’unica via di uscita per i feriti in condizioni critiche. L’esercito israeliano ha preso il controllo del corridoio Filadelfi a maggio, quando ha spinto la sua offensiva militare fino alla città di Rafah, e ha chiuso il valico. Negli ultimi quattro mesi ha distrutto centinaia di edifici nell’area intorno al corridoio, con bombardamenti e con demolizioni controllate. I suoi soldati ora sono schierati lungo tutto il confine. Il villaggio di Al Qarya as Suwaydiya, che sorgeva sul Mediterraneo, è stato raso al suolo ed è diventato una base militare israeliana, come dimostrano le immagini satellitari pubblicate dalla Bbc.

Fatto compiuto

Lo stesso articolo raccoglie altre fotografie che illustrano le forze israeliane asfaltare una strada lungo il corridoio Filadelfi. Tra il 26 agosto e il 5 settembre la porzione asfaltata si è estesa dalla costa verso l’interno per 6,4 chilometri. Un video pubblicato online il 4 settembre mostra macchinari all’opera di notte lungo la barriera che segna il confine, versando asfalto fresco in modo da consentire il passaggio di due grandi veicoli.

Andreas Krieg, ricercatore al King’s college London, nel Regno Unito, spiega alla Bbc: “Asfaltare la strada serve a mettere pressione sui negoziatori e i mediatori. Gli israeliani stanno cercando di creare un fatto compiuto”. Tutto questo suggerisce anche, prosegue Krieg, che “Israele non si ritirerà completamente dalla Striscia di Gaza presto”. A conferma della sua affermazione il ricercatore cita gli investimenti fatti da Israele nel corridoio Netzarim, un lembo di terra di sei chilometri che divide il nord e il sud della Striscia, istituito dall’esercito nel corso della sua operazione militare nel territorio palestinese.

In quest’area, che prende il nome da uno degli insediamenti israeliani illegali che esistevano a Gaza prima del ritiro del 2005, negli ultimi mesi l’esercito ha allestito barriere di cemento, torrette e muri. “Non si costruiscono queste cose se si sta pianificando una ritirata”, commenta Krieg. Da questa base i militari israeliani monitorano i movimenti dei palestinesi tra il nord e il sud della Striscia e lanciano le loro operazioni militari. Secondo Middle East Eye, il controllo del corridoio Netzarim serve a Israele per “comandare in modo permanente la vita a Gaza dopo la guerra, senza necessariamente occupare l’intero territorio”.

Durante la sua presentazione in tv, Netanyahu ha promesso che Israele manterrà il controllo dei corridoi Filadelfi e Netzarim, oltre che del valico di Rafah. Queste condizioni però non compaiono nella proposta di accordo su cui si basano i negoziati in corso, che è stata approvata dal presidente degli Stati Uniti il 31 maggio e da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu il 10 giugno, nella quale si fa riferimento al ritiro completo delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza, un punto su cui insiste Hamas. Anche l’Egitto si oppone alla permanenza delle truppe israeliane al suo confine, considerata come una violazione all’accordo del 1979 e una minaccia che potrebbe provocare un flusso di profughi palestinesi nel suo territorio, aumentando l’instabilità e le difficoltà economiche.

L’accordo per un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi per ora è quindi in sospeso. Anche perché gli alleati di estrema destra che consentono alla coalizione di Netanyahu di restare al governo continuano a insistere sulla necessità di proseguire l’operazione militare nella Striscia di Gaza. Diversi analisti hanno sottolineato che probabilmente lo stallo nei negoziati è quello che vuole il primo ministro per prolungare la sua permanenza al potere ed evitare i processi in cui è imputato per diversi casi di corruzione.

Intanto però le spaccature nella società israeliana si approfondiscono sempre di più. In un articolo che pubblichiamo nel prossimo numero di Internazionale, online da domani e in edicola dal 13 settembre, il giornalista israeliano Meron Rapoport sul sito +972 Magazine parla di “abisso morale”, denunciando come “la macchina dello sterminio” e la disumanizzazione dei palestinesi stiano minacciando l’esistenza stessa dello stato di Israele.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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