In meno di un mese il volto di Beirut si è trasformato, racconta Caroline Hayek su L’Orient-Le Jour. A provocare questo cambiamento è l’arrivo degli sfollati dal sud del Libano, ma anche dalla zona meridionale della capitale e dalla valle della Baqaa, le zone più colpite dai bombardamenti israeliani, che dal 23 settembre prendono di mira soprattutto le roccaforti di Hezbollah nel paese vicino. Secondo le autorità libanesi più di un milione e duecentomila persone hanno lasciato le loro case, riversandosi nelle aree considerate sicure. “I più ‘fortunati’ hanno potuto affittare degli appartamenti, ma altri vivono nelle scuole, nelle sedi delle associazioni, o anche per strada”, scrive Hayek.
In un paese già piegato dalla crisi finanziaria scoppiata nel 2019 e da una serie di disastri, tra cui l’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020, questo nuovo flusso di sfollati è percepito da una parte della popolazione come “una bomba a orologeria”, scrive ancora Hayek. Se da un lato i libanesi hanno mostrato grande solidarietà mettendo a disposizione appartamenti, uffici e pasti gratuiti, dall’altro sono aumentate anche la paura e la diffidenza tra i diversi gruppi confessionali, minacciando la stabilità del paese. Alcune comunità delle aree a maggioranza cristiana e drusa sono riluttanti ad accogliere gli sfollati, che provengono dalle zone prevalentemente sciite, perché hanno paura di diventare bersaglio dei bombardamenti israeliani.
Questi timori si sono concretizzati il 14 ottobre, quando l’aviazione israeliana ha colpito il villaggio di Aitou, che si trova nel nord del Libano, in una zona montuosa popolata soprattutto da cristiani maroniti. L’attacco ha provocato ventiquattro vittime. Nei giorni precedenti erano stati presi di mira altri villaggi lontani dalle zone d’influenza di Hezbollah, dove si erano rifugiati alcuni sfollati dal sud. Gli abitanti di Aitou considerano questi attacchi come un tentativo d’Israele di approfondire le divisioni interne al Libano, conferma Middle East Eye. “Israele vuole creare un conflitto tra noi e gli sfollati”, ha detto uno di loro.
La storia di violenza settaria del Libano, con una guerra civile combattuta per quindici anni, dal 1975 al 1990, tra una serie di alleanze in continuo mutamento, ha reso lo spettro di nuovi scontri tra le comunità particolarmente preoccupante. La popolazione libanese è un mosaico composto da più di dieci gruppi e anche la rappresentanza politica è divisa lungo linee etniche. I conflitti del passato e gli spostamenti di massa che ne sono conseguiti hanno favorito una divisione anche geografica della popolazione libanese, per cui generalmente ogni comunità religiosa è concentrata in zone e quartieri specifici.
Mat Nashed e Simon Speakman Cordall commentano su Al Jazeera che questo fragile sistema è stato storicamente sfruttato dagli stati della regione per i loro obiettivi geopolitici, approfondendo le divisioni tra le fazioni politiche e le comunità religiose. Prendendo di mira le zone che hanno accolto il maggior numero di sfollati, Israele sta mettendo in atto una “punizione collettiva della base sciita che sostiene Hezbollah, tormentando psicologicamente la popolazione libanese e innescando la violenza settaria”. Secondo Maha Yahiya, direttrice del Carniege Middle East center, si tratta di “un messaggio a Hezbollah e alla comunità sciita in generale, per dirgli: ‘Vi colpiremo ovunque voi siate’”. Questo sta “quasi seminando il panico” tra i libanesi, terrorizzati all’idea di “avere vicini che non conoscono e che Israele potrebbe decidere di colpire”.
Caroline Hayek su L’Orient-Le Jour aggiunge un altro elemento: la paura dello squilibrio demografico. Questo timore si manifesta da più di dieci anni nei confronti dei profughi siriani e oggi si è trasferito sulle classi più povere della società libanese: “Tutti gli ingredienti, insomma, per spingere il paese nell’abisso nel quale minaccia di cadere da anni”.
Anche se tutti i leader politici hanno sottolineato l’importanza di mantenere la “pace civile”, sul terreno le tensioni sono forti. Gli abitanti di molti quartieri a maggioranza cristiana di Beirut, e le fazioni che li controllano, hanno cominciato a monitorare ospiti e visitatori, a volte fermandoli e perquisendoli. In molti casi agli sfollati è impedito spostarsi, conferma Maha Yahiya ad Al Jazeera. Altre strutture, in particolare le scuole, che hanno accolto gli sfollati, sono finite sotto il controllo dei gruppi affiliati a Hezbollah, che tengono d’occhio chiunque entra ed esce, aggiunge la Reuters. Le strade principali di Beirut, già normalmente intasate dal traffico, ora sono bloccate dalle auto delle persone fuggite dai bombardamenti.
Un altro articolo di Al Jazeera critica il governo per aver messo a disposizione poche strutture per accogliere gli sfollati, e soprattutto scuole, impedendo così a molti bambini di frequentare le lezioni. Secondo Sami Halabi, direttore di Badil, The Alternative policy institute, un istituto libanese che si occupa d’informazione, questa crisi ha reso evidente che la politica abitativa del paese ha bisogno di una drastica riforma, che limiti la speculazione e garantisca agli sfollati protezioni legali contro gli sgomberi e accesso ai servizi di base.
Alcuni osservatori sul terreno notano però che se da un lato la guerra spinge le persone a rintanarsi nelle certezze dell’appartenenza etnica, dall’altra rafforza anche la solidarietà. In un articolo su New Lines Magazine il giornalista freelance Miguel Flores Hormigo, che vive a Beirut, sottolinea che la guerra sta risvegliando i vecchi pregiudizi, soprattutto tra le fasce più anziane della popolazione, ma sta anche mettendo alla prova gli ideali delle generazioni più giovani, che nel 2019 scesero in strada per protestare contro una classe dominante considerata corrotta e incapace, dando vita alla più grande mobilitazione antigovernativa della storia del Libano.
Neanche a farlo apposta la data d’inizio di quella che molti hanno chiamato thawra, rivoluzione, è il 17 ottobre 2019. Molti giovani che esattamente cinque anni fa riempivano le strade di Beirut e di altre città del paese oggi partecipano a varie iniziative organizzate dalla società civile per far fronte alla crisi degli sfollati. E rifiutano ancora le strutture confessionali che soffocano la società libanese e che la mobilitazione del 2019 si prefiggeva di scardinare, unendo persone provenienti da contesti e comunità diverse.
Omar al Ghazzi, che si occupa di informazione e attivismo in Medio Oriente alla London school of economics, conferma a New Lines Magazine: “Le tensioni confessionali in Libano si affiancano a un senso di cittadinanza che si rafforza nei momenti in cui il paese è preso di mira. I giovani svolgono un ruolo cruciale in questo senso, perché tendono a vivere le crisi a livello nazionale e a rifiutare i valori dei partiti e delle comunità dominanti”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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