Il 24 ottobre circa ottanta paesi partecipano a Parigi a un incontro dal titolo ambizioso: “Conferenza internazionale di sostegno al popolo e alla sovranità libanese”. Eppure dobbiamo essere realisti e non aspettarci granché dall’evento.

Certo, ci saranno promesse di finanziamenti per gli aiuti umanitari da destinare al Libano sotto le bombe, con un obiettivo stimato in quattrocento milioni di dollari. È un aiuto sicuramente indispensabile per un paese che rischia di fallire e si ritrova in guerra per l’ennesima volta, con un quarto della popolazione costretta ad abbandonare la propria casa.

Ma allo stesso tempo bisogna ammettere che gli aiuti umanitari sono una soluzione di ripiego per chi non è in grado di fermare il conflitto. La verità è che nessuno riesce ad arginare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, deciso a portare avanti la sua guerra sia nella Striscia di Gaza sia in Libano, preparandosi a colpire anche l’Iran. I missili di Hezbollah che piovono su Israele garantiscono a Netanyahu il sostegno dell’opinione pubblica per proseguire l’attacco.

Il segretario di stato americano Antony Blinken ha appena lasciato Israele, incassando l’ennesimo fallimento. Dopo un anno di sforzi, il brillante diplomatico è costretto a una nuova umiliazione. Blinken non parteciperà alla conferenza di Parigi perché impegnato nel Golfo.

La Francia e il Libano, rappresentato dal suo primo ministro Najib Mikati perché da due anni non ha un presidente, vogliono insistere su un tema: il rafforzamento delle capacità militari libanesi.

La posta in gioco è considerevole. Oggi l’esercito libanese ha mezzi inferiori rispetto a quelli di Hezbollah prima della guerra. La “sovranità” a cui fa riferimento il titolo della conferenza passa per il ripristino di un esercito nazionale come forza di difesa del paese, in particolare nel sud.

Per riuscirci servono attrezzature e uomini, dunque finanziamenti, ma non solo. Prima di tutto è necessaria la volontà politica dei libanesi, che tuttavia sembra assente dopo anni di paralisi dei leader al potere a Beirut.

Non dobbiamo farci illusioni. Gli ottanta paesi rappresentati a Parigi – di cui non fanno parte né Israele né l’Iran – non hanno il potere per influire sulla guerra. Solo gli Stati Uniti potrebbero farlo, se volessero. Ma a meno di due settimane dalle elezioni, Washington non vuole scatenare una crisi con Israele.

L’inviato speciale degli Stati Uniti in Libano Amos Hochstein, di recente in visita a Beirut, ha parlato dell’applicazione della risoluzione 1701 dell’Onu, punto di riferimento per il Libano. La risoluzione è rimasta lettera morta per ben 18 anni, ma ora Hochstein vuole ampliarla. Questo significa lunghe trattative, dunque il proseguimento della guerra.

La frustrazione generale emerge in un appello lanciato il 24 ottobre in occasione del vertice di Parigi da 139 ong internazionali, secondo cui la regione “è sull’orlo dell’abisso e di una devastazione ancora peggiore di quella a cui abbiamo assistito”. Il testo chiede un cessate il fuoco incondizionato, la protezione dei civili e la liberazione degli ostaggi e dei detenuti.

Ma il grido d’allarme della società civile rischia di non avere alcun peso su una conferenza che ha il merito di attirare l’attenzione sulla crisi libanese ma non avrà né i mezzi né l’ambizione per mettere fine a una guerra sempre più tragica per il paese.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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