Il 13 dicembre decine di migliaia di siriani si sono riuniti a Damasco e in altre città del paese per celebrare il primo venerdì di preghiera dopo la caduta del regime di Bashar al Assad, avvenuta l’8 dicembre per mano di una coalizione di forze ribelli. Le strade della capitale sono state invase dalla bandiera con le tre stelle rosse dell’opposizione, che nessuno aveva più osato sventolare dopo la rivoluzione del 2011 e ora è stata adottata dalle nuove autorità. La folla si è radunata davanti alla moschea degli Omayyadi, uno dei luoghi religiosi più importanti del mondo islamico, che si trova nel cuore della città vecchia.
L’Associated Press sottolinea gli aspetti simbolici di quel momento. “La moschea, una delle più antiche del mondo, risalente a circa 1.200 anni fa, è un amato simbolo della Siria, e i sermoni che si tengono lì, come quelli di tutte le moschee del paese, erano strettamente controllati sotto il governo di Assad”. Inoltre, nei primi giorni della rivolta antigovernativa del 2011, i manifestanti lasciavano le preghiere del venerdì per partecipare alle proteste contro Assad, prima che il dittatore lanciasse la brutale repressione che ha trasformato la rivolta in una lunga e sanguinosa guerra civile, provocando la morte di più di cinquecentomila siriani.
Nella piazza intorno alla moschea la folla ha acclamato l’arrivo del gruppo di volontari siriani chiamato Caschi bianchi, che non ci aveva mai potuto mettere piede dalla sua fondazione nel 2014. I volontari operavano nei territori controllati dall’opposizione, soccorrendo le vittime dei bombardamenti e trovandosi spesso loro stessi bersagli degli attacchi aerei del regime e della Russia. Nella puntata del 18 dicembre del podcast Il Mondo, Catherine Cornet ha ricordato che Caschi bianchi di Khaled Khateeb, vincitore del premio come miglior corto documentario agli Oscar del 2017, è disponibile su Netflix.
Domenica, il primo giorno della settimana lavorativa in Siria come in molti paesi arabi, c’era ancora aria di festa mentre gli studenti rientravano nelle classi e i negozi riaprivano nelle città principali del paese. In un importante segnale di ritorno alla normalità, le nuove autorità siriane hanno subito ordinato la riapertura di scuole e università. Il preside della facoltà di lettere dell’università di Damasco, Ali Allaham, ha indicato all’Afp che il primo giorno di rientro erano presenti circa l’80 per cento del personale e “un gran numero di studenti”. Nel cortile riecheggiavano gli slogan rivoluzionari mentre ragazze e ragazzi andavano a lezione calpestando una statua simbolo del regime.
Lo stesso giorno la comunità cristiana del paese ha celebrato la prima messa sotto il nuovo governo. La popolazione cristiana della Siria si è dimezzata dal 10 per cento di prima della guerra al 5 per cento (meno di 700mila persone) nel 2022 secondo il New York Times, ma durante il regime di Assad poteva esercitare liberamente il suo culto, come altre minoranze religiose storiche. Alcuni componenti oggi sono preoccupati dalla prospettiva di un governo islamista. Il governo di transizione ha assicurato che saranno rispettati i diritti di tutte le minoranze, ma l’inclusione e l’armonizzazione dei vari gruppi etnici e religiosi sarà una delle sfide principali della nuova Siria.
Bisogno di rassicurazioni
La tutela delle minoranze è stata anche al centro dei colloqui che si sono tenuti sabato ad Aqaba, in Giordania, tra funzionari di alto livello di Stati Uniti, Turchia, Unione europea e paesi arabi per discutere della situazione in Siria. In una conferenza stampa al termine dei colloqui, il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha detto che Washington ha “contatti diretti” con Hayat tahrir al Sham (Hts), il gruppo islamista che ha guidato l’offensiva contro Assad. I diplomatici arabi si erano già incontrati separatamente e avevano rilasciato una dichiarazione in cui chiedevano una transizione politica pacifica e inclusiva che porti a elezioni e a una nuova costituzione. Avevano inoltre dichiarato alla Reuters di voler ottenere dalla Turchia garanzie sul suo sostegno e sulla necessità di evitare una divisione della Siria su base settaria.
In Siria i musulmani sunniti costituiscono la maggioranza della popolazione, circa il 70 per cento. Gli sciiti invece (il cui principale punto di disaccordo con i sunniti riguarda la questione dell’eredità di Maometto) sono il 13 per cento e sono in maggior parte alawiti, una setta nata dall’islam sciita a cui appartengono anche la famiglia di Bashar al Assad e gli uomini forti dell’ex regime. Vivono soprattutto lungo la costa occidentale del paese. Alcuni di loro sono fuggiti nel vicino Libano temendo ritorsioni nei primi giorni dopo la caduta del regime.
Un articolo di L’Orient-Le Jour racconta i timori e le speranze della comunità alawita, che in grande maggioranza “desidera partecipare a questo momento di liberazione, ma sente anche il bisogno di essere rassicurata sulla propria sorte”. Aghiad Ghanem, che si occupa di relazioni internazionali franco-siriane, ha confermato al quotidiano libanese: “Gli alawiti osservano la situazione con un misto di sollievo per la caduta del regime e di riserve sul nuovo governo, data la sua inclinazione islamista e le complicità passate con Al Qaeda in Siria”. I capi della comunità religiosa hanno risposto positivamente alle rassicurazioni delle nuove autorità, firmando una dichiarazione congiunta in cui esprimono la loro opposizione al porto d’armi e chiedendo garanzie per un ritorno in sicurezza di tutti gli sfollati.
A Latakia, dove si concentra la maggioranza degli alawiti, decine di migliaia di soldati e poliziotti che prestavano servizio sotto il regime di Assad sono attesi per deporre le armi e regolarizzare la loro situazione registrandosi presso le nuove autorità, dopo un appello lanciato dal governo di transizione. Il funzionario di uno dei centri allestiti a questo scopo negli uffici della sicurezza di Latakia ha spiegato all’Afp che a queste persone sarà concesso un permesso di tre mesi “per la loro protezione” e anche “per avere il tempo d’indagare sul loro passato. In caso di crimini gravi, saranno trasferiti alla giustizia”.
Anche la minoranza curda sta facendo i conti con la nuova realtà della Siria. Prima della rivoluzione del 2011 i curdi vivevano soprattutto a Damasco, Aleppo e in tre zone intorno alle città di Kobane, Afrin e Qamishli, nel nord del paese, e spesso erano emarginati e privati dei loro diritti fondamentali. Nel 2012 hanno preso il controllo di una parte della regione dove vivevano e hanno costituito l’Amministrazione autonoma del nordest della Siria, più conosciuta come Rojava. Lì hanno istituito un loro governo autonomo, coinvolgendo anche la popolazione araba e proponendo un progetto politico basato su un sistema democratico, pluralistico, multietnico, sull’uguaglianza di genere, economica e culturale e sul rispetto dell’ambiente. Dopo essere stati sotto i riflettori internazionali per aver respinto il gruppo Stato islamico (Is) da Kobane tra settembre 2014 e marzo 2015, i curdi sono rimasti come forza di presidio contro la presenza jihadista, con il sostegno degli Stati Uniti.
Nei giorni successivi alla caduta di Assad, la Turchia ha approfittato del caos nel paese per attaccare i curdi con i gruppi armati suoi alleati, riuniti nell’Esercito nazionale siriano (Syrian national army, Sna). L’obiettivo di Ankara è ampliare le zone cuscinetto lungo il suo confine dove rimpatriare i tre milioni di profughi siriani che si trovano sul suo territorio e cacciare le Forze democratiche siriane a maggioranza curda, che considera una minaccia perché hanno legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, un’organizzazione indipendentista di curdi turchi in guerra con lo stato turco da decenni.
Dopo che l’Sna ha cacciato le Fds dalle città di Manbij e Tel Rifat la settimana scorsa, è stata raggiunta una tregua con la mediazione di Washington. Ma la situazione resta tesa e i curdi temono nuove violenze della Turchia. Il 16 dicembre Hussein Othman, capo del consiglio esecutivo dell’Amministrazione autonoma del nordest della Siria, ha invocato “la fine di tutte le operazioni militari sull’intero territorio siriano per cominciare un dialogo nazionale completo e costruttivo”. In un segnale di apertura verso le autorità di Damasco, l’amministrazione curda ha adottato la nuova bandiera siriana.
La comunità drusa, che prima della guerra contava tra 700mila e 800mila componenti (non ci sono stime demografiche più recenti), si è unita ai festeggiamenti per la caduta di Assad. I drusi, che vivono anche in Libano, in Israele e nelle alture del Golan occupate da Israele, s’identificano in gran parte come arabi. La loro religione si è sviluppata a partire dall’islam sciita ismailita nell’undicesimo secolo, ma si è evoluta includendo aspetti di altre religioni, tra cui l’induismo, il cristianesimo e l’ebraismo, e di antiche filosofie.
Il 13 dicembre la piazza principale di Al Suwayda, la città nel sud la cui popolazione è costituita in maggioranza da drusi, era piena di persone che sventolavano la bandiera della Siria e ramoscelli d’ulivo in segno di pace. A parte difendersi dagli attacchi nelle aree in cui vivono, i drusi siriani sono rimasti in gran parte ai margini della guerra civile e Assad era riuscito a conquistare la loro fedeltà esentandoli dal servizio militare. Negli ultimi anni però il malcontento della comunità era cresciuto e Al Suwayda era stata teatro di contestazioni contro Damasco. Quando Hayat tahrir al Sham ha lanciato la sua offensiva contro Assad, i gruppi locali hanno dato il loro contributo cacciando le truppe del regime dalla provincia. Il leader spirituale dei drusi, Hikmat al Hijiri, ha spiegato a The National che la milizia di Al Suwayda, chiamata Rijal al Karamah, si sta coordinando con Hts per “mantenere la stabilità nell’area”.
Fadıl Hancı, ricercatore dell’Omran for strategic studies, un centro di ricerca sulla Siria con sede a Istanbul, in Turchia, ha detto a L’Orient-Le Jour che “il futuro della comunità drusa di Al Suwayda dipenderà dal suo grado di integrazione nella nuova struttura di governo centrale”. L’Htc ha una grande esperienza di coordinamento con vari gruppi armati fin dall’inizio del conflitto in Siria, ma secondo Hancı “è ancora troppo presto per giudicare il futuro delle sue relazioni con i gruppi armati drusi”.
A preoccupare in questo momento è soprattutto il futuro della comunità drusa del Golan, in particolare nell’area occupata militarmente da Israele una decina di giorni fa. Subito dopo la caduta di Assad, Israele ha inviato carri armati e truppe sul monte Hermon (che i siriani chiamano Jabel Sheikh) e in altri territori strategici che si trovano in una zona cuscinetto tra Israele e la Siria controllata dall’Onu, appena oltre l’area occupata da Tel Aviv nel 1967 e annessa nel 1981. L’operazione è stata inizialmente presentata come limitata e temporanea, ma il 17 dicembre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in visita sul monte Hermon ha detto che le truppe resteranno sul posto finché “non sarà raggiunto un altro accordo che garantisca la sicurezza di Israele”.
Diversi esperti denunciano il tentativo di Israele di attuare un “cambiamento demografico” in suo favore nell’area. Tanto più che il 15 dicembre il governo israeliano ha approvato un piano da 40 milioni di shekel (10,6 milioni di euro) per raddoppiare la popolazione nella parte del Golan siriano occupata nel 1967. Gli abitanti dell’area hanno chiesto al nuovo governo di Damasco e ad altri paesi arabi di fare in modo che Israele si ritiri, scrive Haaretz. Il quotidiano israeliano riferisce che i capi dei villaggi drusi siriani e i leader spirituali della comunità hanno avvertito la popolazione di fare attenzione alle mosse israeliane, perché il governo di Tel Aviv “sa molto bene come sfruttare questa situazione”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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