Qualche anno fa, al termine di un’intervista sul Patto sulla migrazione e l’asilo presentato dalla Commissione europea l’avvocata italiana Anna Brambilla aveva lanciato una proposta: “Fondiamo il Gtmaaf: gruppo transnazionale di mutuo aiuto per avvocati frustrati”.
A metà tra la battuta e l’appello alla resistenza, l’idea di Brambilla, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), nasceva da una constatazione: in un contesto europeo sempre più ostile alle persone migranti, di fronte allo smantellamento sempre più rapido del diritto d’asilo e degli stranieri, difendere i diritti dei migranti era diventata una missione quasi impossibile, un mestiere screditato da governi che agitavano lo spauracchio degli “avvocati attivisti”.
Dal 2020 la situazione è peggiorata, accrescendo il senso d’impotenza tra giuriste e giuristi impegnati al fianco di richiedenti asilo e altre persone che tentano di regolarizzare la propria presenza sul territorio dell’Unione europea. Da sinistra a destra, i governi europei si sforzano di restringere i diritti delle persone non europee modificando le leggi o ignorandole, e calpestando di conseguenza i loro diritti fondamentali.
Unire le forze
Nessuna pratica è più emblematica di quella dei pushback (o respingimenti). Benché il diritto internazionale vieti di rimandare i richiedenti asilo verso territori nei quali la loro vita o la loro libertà potrebbero essere minacciate, questo tipo di operazione è ormai comune in molti stati membri, alle frontiere tanto esterne (Bulgaria, Croazia, Spagna, Grecia, Ungheria, l’elenco è lungo) quanto interne dell’Ue (come accade alla frontiera franco-italiana).
La Lituania si è recentemente distinta approvando un provvedimento che legalizza questa pratica, ma la maggior parte dei paesi che eseguono dei respingimenti lo fa violando deliberatamente la legge.
A Lesbo, isola greca a una decina di chilometri dalle coste della Turchia, i respingimenti avvengono “quasi ogni giorno, in certi casi anche più volte al giorno, cosa che le autorità negano sistematicamente”, denuncia Ozan Mirkan Balpetek, responsabile della comunicazione e dell’advocacy presso il Legal centre Lesvos (Centro legale di Lesbo, Lcl), un’organizzazione senza scopo di lucro registrata in Grecia, che fornisce assistenza legale gratuita alle persone migranti.
Le associazioni puntano anche sul contenzioso strategico, con l’obiettivo di ottenere un cambiamento più ampio sul piano giuridico e sociale
In Polonia, l’avvocata Aleksandra Pulchny, socia dell’Association for legal intervention di Varsavia, descrive una situazione simile: “Dall’agosto 2021, le persone che arrivano dalla Bielorussia vengono trasferite dalle guardie di frontiera polacche nella foresta di Białowieża. I respingimenti continuano perché, nonostante la costruzione del muro, le persone riescono ancora a entrare in territorio polacco. E anche se abbiamo ottenuto delle condanne emesse da alcuni tribunali, le guardie di frontiera continuano con i respingimenti”.
Per rafforzare l’assistenza legale e umanitaria alle persone che arrivano alla frontiera, l’associazione ha creato, con altri partner, la rete Grupa Granica. “Facciamo anche parte del Migration consortium”, spiega Pulchny, “una rete di ong polacche con le quali prendiamo posizioni comuni e incontriamo le autorità”. Al livello europeo, l’associazione ha aderito al progetto Prab, che riunisce diverse organizzazioni impegnate contro i pushback. “Unire le forze con altri è essenziale”, assicura Pulchny.
Balpetek è d’accordo, ma sottolinea quanto sia importante costruire alleanze che vadano oltre le frontiere dell’Ue, com’è successo in occasione del settimo anniversario dell’accordo di cooperazione tra l’Ue e la Turchia, denunciato dall’Lcl con 73 partner. “Il fatto che le persone muoiano in acque internazionali o in una no man’s land (terra di nessuno) deve naturalmente portare gli avvocati che lavorano nell’Ue a collaborare con i loro colleghi nei paesi vicini”.
Balpetek cita la collaborazione nata intorno al caso di Barış Büyüksu, un cittadino turco morto il 22 ottobre 2022, poco dopo essere stato trovato su un canotto gonfiabile al largo della città turca di Bodrum. Secondo alcune testimonianze, l’uomo era arrivato sull’isola greca di Kos, dove sarebbe stato detenuto e torturato dalle autorità greche prima di essere respinto insieme ad altre 14 persone. Il rapporto dell’autopsia, da poco rilasciato in Turchia, conferma le accuse di tortura.
“Più i respingimenti diventano una realtà e più sentiamo il bisogno di collaborare con i nostri colleghi in Turchia”, spiega Balpetek, “perché la Grecia continentale è a 500 chilometri da qui, mentre ora, mentre parlo, vedo la Turchia dalla mia finestra L’Europa non finisce in Grecia o in Bulgaria”.
Il rovescio della medaglia
Le tre associazioni puntano anche sul contenzioso strategico, portando casi emblematici davanti a tribunali nazionali o internazionali con l’obiettivo di ottenere un cambiamento più ampio sul piano giuridico e sociale. “Può essere utile, ma c’è il rovescio della medaglia”, osserva Brambilla, “perché anche quando vinci, il potere si riorganizza per vanificare questo risultato. Non bisogna lasciarsi scoraggiare ma occorre forse riconsiderare il contenzioso anche prevedendo quale potrebbe essere la possibile risposta delle autorità statali”.
Pulchny dà un esempio. In seguito ad alcune decisioni della Corte europea dei diritti umani, che condannava la Polonia per la detenzione amministrativa di minorenni, “alcuni tribunali polacchi avevano cambiato posizione”. Poi, di recente, il centro di detenzione per famiglie di Kętrzyn, nel nord del paese, è stato trasformato in una struttura riservata agli uomini. “Secondo noi, potrebbe essere accaduto perché il tribunale responsabile di esaminare i casi di quel centro era diventato troppo ‘a favore dei bambini’”, spiega l’avvocata. “Oggi le famiglie con bambini sono detenute in un’altra città, dove il tribunale è meno attento a questo tema, e dobbiamo ricominciare tutto da capo”.
“Lo stato non ama sottomettersi alla legge”, osserva l’avvocata belga Selma Benkhelifa, socia del Progress lawyers network. Benkhelifa è il tipo di avvocata che non esita a recitare una poesia di Bertolt Brecht (“Le nostre sconfitte, vedete/non provano nulla, se non/che siamo troppo pochi/a lottare contro l’infamia”) quando un giudice decide di rinviare la sua cliente, una giovane afgana scolarizzata in Belgio, nel suo paese di origine. “Quando ho cominciato a esercitare la professione, nel 2001, giudici e avvocati si trovavano spesso d’accordo sui princìpi di base: l’esistenza dei diritti umani, il fatto che una persona bianca e una nera sono uguali. Però ci dicevano: ‘Il suo cliente mente’, e noi dovevamo dimostrare che non mentiva. Da qualche anno, anche quando dimostriamo che la persona potrebbe morire se fosse rispedita nel suo paese di origine, il giudice risponde: ‘Pazienza’”.
Arrendersi all’incredulità
Benkhelifa e i suoi colleghi hanno preso l’abitudine di non presentarsi più soli “quando rischiamo di ritrovarci con un tribunale molto ostile: per sostenerci a vicenda, ma anche perché a volte ti capita di sentire certe cose… e ti chiedi se stai sognando”.
Di recente, in Belgio, anche i giudici hanno dovuto arrendersi all’incredulità. Nonostante le oltre ottomila condanne da parte del tribunale del lavoro e le molteplici ingiunzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, le autorità belghe continuano a violare la legge lasciando per strada migliaia di richiedenti asilo, che hanno tutti diritto a un alloggio. Secondo Benkhelifa, questo rifiuto di rispettare le decisioni della giustizia segna un punto di svolta: “Spesso dico che gli stranieri sono un banco di prova delle politiche liberticide. L’erosione dei diritti fondamentali comincia da loro perché non interessa a nessuno. È un precedente molto pericoloso”.
Nonostante la gravità delle sfide, da Varsavia a Bruxelles, da Lesbo a Milano la volontà di battersi rimane intatta, anche grazie alla solidarietà che cresce tra, e intorno a, chi difende i diritti delle persone in movimento. “Certo, proviamo frustrazione”, riconosce Balpetek, “ma quello che ci permette di andare avanti è l’enorme solidarietà internazionale”, come quella ispirata dal caso dei “Moria 6”, i sei giovani afgani condannati, sulla base di elementi discutibili, a pesanti pene detentive per l’incendio del campo di Moria a Lesbo nel 2020 (il processo di appello, che doveva cominciare il 6 marzo 2023, è stato rinviato di un anno). “Questa solidarietà è importante per noi, ma anche per le persone detenute”. In tutta l’Ue e oltre, i rapporti tra coloro che resistono – giuristi, ong, attivisti – si stanno quindi consolidando su scala transnazionale.
Qualcosa sta cambiando anche tra gli stessi giuristi. “Credo che di fronte alla situazione attuale, alcuni colleghi si radicalizzino”, osserva Benkhelifa, “e riconoscano che bisogna aprire le frontiere se vogliamo smettere di far morire le persone”. Anna Brambilla parla della necessità di cambiare rotta e prospettiva, di non pensare esclusivamente in termini di asilo ma di tornare alla riflessione originaria sui diritti, sulla libertà di movimento e sulle migrazioni.
“Il cambiamento deve essere anche culturale e personale”, afferma. Così, dal 2022, l’Asgi propone ai suoi soci degli incontri con specialisti della migrazione in ambiti diversi dal diritto, per stimolare questo cambio di prospettiva ed evitare l’isolamento e il frazionamento disciplinare. “Non possiamo inoltre non osservare come, anche tra gli ‘addetti ai lavori’, il sapere sia ancora essenzialmente bianco e occidentale”, aggiunge Brambilla. “Come sostiene Rachele Borghi, docente di geografia all’Université Paris-Sorbonne, occorre ‘decolonizzare il sapere’”, e questo anche nel campo del diritto.
“Certo che sono arrabbiata, ma non ho perso la speranza, perché credo che la questione dei diritti umani e della democrazia sia un’eterna lotta”, conclude Benkhelifa. “La situazione potrebbe peggiorare ancora per qualche anno, e poi migliorare. Uno dei motivi per cui ho deciso di diventare avvocata era l’ammirazione che provavo per la giurista franco-tunisina Gisèle Halimi. Durante la guerra di Algeria, difese attivisti e attiviste del Fronte di liberazione nazionale che avevano ricevuto una condanna a morte. Halimi e i suoi colleghi ebbero il coraggio di portare avanti questa battaglia perché credevano nell’Algeria libera. Io credo nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani e nell’apertura delle frontiere e questo mi dà la forza per continuare questa lotta, anche se per ora può sembrare utopistica”.
Leggi anche
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it