Questo è un estratto del saggio-postfazione di Francesco Boille al libro “Il signor Spartaco. Viaggio di un epicentrico” di Lorenzo Mattotti. Uscito per la prima volta su una rivista nel 1982, è stato pubblicato in volume nel 1985 e viene ora riproposto dalle edizioni Logos, che stanno ripubblicando tutte le storie a fumetti di Mattotti dopo aver pubblicato diversi libri di sue illustrazioni. “Il signor Spartaco. Viaggio di un epicentrico” (136 pagine, 19 euro) ha in appendice, oltre alla postfazione, illustrazioni, schizzi, tavole preparatorie dell’autore e il racconto breve “Da un punto di vista” scritto con Jerry Kramsky, sorta di preludio a Spartaco. Con questo racconto Mattotti inaugura il suo lavoro nel colore pittorico nel fumetto dopo molti lavori in bianco e nero.
Assurto a maestro del fumetto e dell’illustrazione soprattutto per mezzo della pittura, Lorenzo Mattotti è un autore il cui apporto rivoluzionario va ben oltre quello del fumetto, tanto d’autore che popolare, mezzo d’espressione maggiore che nel corso della sua storia ha intuito, precorso oppure, quando in simultanea con altri ambiti, condensato con originalità – a un attento esame – una quantità di elementi propri alle arti visive, al cinema, alla pubblicità, al design, la cui varietà suscita il capogiro. A ben vedere, Mattotti ha operato all’interno del linguaggio del fumetto una fusione totale, quasi sconvolgente, di quanto originato e creato dalle arti – in particolare l’arte pittorica, ma non soltanto – a cavallo tra ottocento e novecento, fusione che in realtà dovrebbe essere di riferimento per la cultura contemporanea in generale. (…)
Cosa c’è dunque in questo fumetto d’autore con lo sguardo magico e inquieto dell’infanzia e tuttavia più adulto che mai nelle sue significazioni di fondo? Cosa c’è dunque in questo caleidoscopio coloratissimo di riferimenti, citazioni e “fusioni” disparate, dove la gioia per i colori pare direttamente proporzionale allo sprofondare nella loro essenza intrinsecamente caleidoscopica? D’altra parte Spartaco è – a tutti i livelli – un caleidoscopio del novecento così come della contemporaneità. E sotto quest’ultimo aspetto più attuale che mai.
Già il sottotitolo dice molto, anticipa molto, riassume molto: Viaggio di un epicentrico. Il viaggiatore in questione è una marionetta dalle tante “colorazioni” del grigio che ricerca disperatamente l’intera policromia d’antan, i colori e gli odori perduti dell’infanzia con l’inquieto intento di (ri)trovare l’equilibrio adulto.
Giochi di parole
Una marionetta alla quale l’autore ha dato un nome poetico quanto improbabile – anzi poetico perché improbabile – contraddittorio quanto fuori dal tempo, quello di Spartaco. Si perdoni il giocare con le parole, ma dopotutto siamo coerenti con l’evidenza di cui è espressione il sottotitolo, surrealista quanto futurista e che forse non sarebbe dispiaciuto all’araldo del futurismo, il poeta Filippo Tommaso Marinetti.
Al contempo il sottotitolo è un gioco linguistico non tanto lontano, in definitiva, dai giochi con le rime baciate delle marionette cartacee del Corriere dei Piccoli, comprese quelle degli anni immediatamente precedenti e successivi al futurismo. Ma Spartaco è parimenti un epicentr(ic)o dei sommovimenti dell’interiorità – o dell’anima – e della storia delle arti del novecento, in una sorta di osmosi, di inscindibilità tra i due elementi. Una fusione con quanto prodotto dalle arti nella loro storia come se queste fossero qui assurte a organismo costitutivo unitario del mondo, la sua essenza stessa. Quindi la significazione del sottotitolo è polivalente, caleidoscopica appunto. Come tutto il resto.
Ma nella prima tavola il protagonista legge in treno un libro di Henri Michaux, il poeta e pittore belga inventore di monsieur Plume, personaggio e autore a cui Spartaco nella sua interezza – il personaggio come il racconto ma senza dimenticare l’autore – è chiaramente prossimo, se non speculare, se si pensa alla fragilità, l’indefinitezza di Plume e al lavoro di destrutturazione dei dogmi letterari compiuto da Michaux. Ed è infatti tratta proprio da Plume la frase citata al proprio sé da Spartaco. Poiché Spartaco, come il ciclo di Plume per Michaux, è un’autobiografia pudica e delicata degli anni indecisi della giovinezza di Mattotti, della sua irrequietezza e inquietudine interiore di artista in erba – celata sotto le spoglie di uno scienziato futurista da fumetto dei primi del novecento – che fa qui uso di una forma traslata e metaforica dove già s’intravedono, sia grafiche sia di scrittura, linee fragili future (per citare Linea fragile, una successiva opera chiave dell’autore benché meno nota di altre). Del resto, Il signor Spartaco anticipa vari temi e leitmotiv del Mattotti a venire. Prima di tutto l’abbandono, l’addio all’infanzia e all’adolescenza, soprattutto alla prima, sempre molto doloroso e traumatico, cui segue la conquista della luce. Conquista intesa come se fosse l’arrivo in cima alla vetta dopo un viaggio-prova d’iniziazione alla vita adulta sotto una forma tutta mentale e simbolica. E conquista intesa come prova dolorosa, faticosa.
Un risveglio sensoriale mediante un viaggio a bordo di un treno che non parte mai, sebbene alla fine giunga invece a “destinazione”, in maniera non dissimile, anche qui, da Plume. Se l’arrivo a destinazione passa attraverso il risveglio del mondo sensoriale, questo indica la necessità di non buttare il bambino insieme all’acqua sporca: il recupero, cioè, di quelle emozioni intense e purissime – primigenie – che da bambini ci vengono in dono grazie al senso innato di meraviglia. Ecco ciò che non si deve perdere dell’infanzia, insieme a un’ironia giocosa, buttando via sì l’infantilismo, ma salvando queste due caratteristiche per esperire una nuova conoscenza, consapevole degli elementi essenziali del mondo, elementi per Mattotti puri e quasi alchemici: l’aria, il cielo azzurro e ovviamente le nuvole, che qui saranno appariscenti solo nel finale, dopo fugaci apparizioni, ma che diverranno leitmotiv poetico ricorrente dell’opera mattottiana, proprio come i gabbiani prattiani, in cui è impossibile distinguere il livello di realismo da quello di stilizzazione contiguo all’astrazione (quantomeno lungo tutto il periodo degli anni sessanta e settanta).
E poi le macchie di colore figlie, tra l’altro, di Mark Rothko, che ritroveremo in seguito e che saranno dominanti nel successivo Fuochi (1984), opera di sconvolgimento totale della storia del fumetto. Anche la citazione di Buzzati sembra messa a bella posta, come a prefigurare il notevole adattamento per il cinema d’animazione del racconto La famosa invasione degli orsi in Sicilia, uscito l’anno scorso in sala. E ancora gli spiritelli-mostriciattoli oppure le maschere etniche prossime a quelle africane o d’Oceania, fonte d’ispirazione, spesso fondamentale, per tanta arte del secolo scorso, anticipano alcuni racconti brevi realizzati con Jerry Kramsky, come Santi numi.
Insomma, il Mattotti di oggi c’è già – e non poco – nel Signor Spartaco, storica pietra angolare dell’edificio Mattotti secondo, oggi imponente ma all’epoca in via di costruzione. Ma torniamo al futurismo, movimento poliedrico dalle molte fasi e dai molti raggruppamenti, anche all’estero. Nel 1919, poco dopo la fine del primo conflitto mondiale, in occasione della Grande esposizione nazionale futurista che si tenne a Milano, Genova e Firenze, “Marinetti identificava le tendenze di ‘sensibilità pittorica’ futurista in 1. “pittura pura”, caratterizzata da “chiaroscuro e ricerca di puri valori plastici”; 2. “dinamismo plastico” cioè “sintesi dinamica dell’universo come forze, simultaneità di tempo-spazio + sintesi di forma-colore”; 3. “decorativismo dinamico futurista a tinte piatte”; 4. “stato d’animo colorato, senza preoccupazioni plastiche”, che segna lo straripamento della pittura nella letteratura, e si riallaccia alla sensibilità delle tavole ‘parolibere’”(1).
In quel periodo, il movimento futurista è dominato da Giacomo Balla e da artisti più giovani come Fortunato Depero – formatosi sotto l’influenza di Balla – ed Enrico Trampolini. Potremmo dire, in maniera un po’ sommaria ma comunque sostanzialmente corretta, che dal Signor Spartaco in poi si ricerca la pittura pura in gran parte dell’opera a fumetti – ma anche d’illustratore – di Mattotti, opera che vedrà via via crescere l’importanza del ‘chiaroscuro’ e dello scontro luce/oscurità.
Un colore pittorico che con Mattotti non fa la sua entrata nel fumetto con gli acquerelli o ripassando a china i contorni di personaggi o animali, come avverrà per altri fumetti pittorici. Qui tutto sarà definito dal colore, nei suoi volumi come nei suoi piani. Anzi, qui il Tutto è colore. E poi il “dinamismo plastico”: questi personaggi che corrono sperduti nel vuoto apparente del mondo, di cui Spartaco è il primo di una serie, non lo rappresentano al meglio? Per non parlare dello “stato d’animo colorato”. Insomma, come ha scritto Marc Voline nella bella prefazione alla seconda riproposizione in libreria dell’opera, “Spartaco è innanzitutto colore, un colore che ha preso vita, e che zampilla, vibra, si irradia, trascinando il lettore in un vortice di sensazioni primordiali”(2). Michaux quindi, o meglio il suo monsieur Plume, è qui colorato e volumetrico, prima ancora che disegnato e non scritto. Eppure, è comunque incerto ed etereo.
Ma se l’opera mattottiana s’inoltrerà sempre più in una ricerca cosmica, a tratti animista, volta a far assurgere i sentimenti più intimi a una dimensione universale, lontanissima da certa odierna contemplazione del proprio ombelico, in Spartaco si gioca ancora – fanciullescamente – con il giocoso futurismo. Con l’Aeropittura di Fortunato Depero in particolare e con il desiderio comune di alcuni futuristi di quegli anni espresso nel celebre manifesto della Ricostruzione futurista dell’universo dell’11 marzo 1915, che vede Balla e Depero autodefinirsi “Astrattisti futuristi”. E proclamare: “Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”.
Quello di Mattotti è un futurismo riletto, rivisitato, anche rovesciato. Fuso con gli altri futurismi.
Benché un po’ altisonante, il tutto non è privo di ironia e sebbene i due artisti non si concentrino soltanto sulla pittura e annuncino un’arte visiva “polimaterica” fatta anche con materiali disparati (metalli, vetri, ecc.), non vi è dubbio, tuttavia, che il loro argomentare calzi perfettamente con il mondo di Spartaco. A questo potremmo aggiungere un aspetto più generale, ma fondamentale: l’aspirazione di Marinetti e dei futuristi a “rompere le barriere tradizionali dei generi e delle arti, verso la realizzazione di un’opera ‘totale’”(3). E sia Mattotti – si vedano i suoi lavori per la moda – sia il gruppo Valvoline, costituito da Igort, Marcello Jori, Giorgio Carpinteri e Daniele Brolli, ai quali Mattotti si unirà insieme a Kramsky, riprenderanno questo concetto con altrettanto entusiasmo.
Ma quello di Mattotti, e in estensione quello degli altri autori di Valvoline, è un futurismo riletto, rivisitato, anche rovesciato. Fuso con gli altri futurismi. C’è una malinconia dolce in superficie, grave nel fondo. E anticipatrice di opere quasi presagio di una fine dei mondi, come il coloratissimo La zona fatua, scritto con Jerry Kramsky, o l’etereo, filiforme L’uomo alla finestra, realizzato con Lilia Ambrosi. Le aree industriali dismesse delle metropoli odierne, dismissioni che oggi si sono fatte incessanti, l’inquietudine esistenziale profonda che ne deriva, la spersonalizzazione degli individui e l’antonioniana incomunicabilità dei sentimenti – tutti elementi che verranno sviluppati da Mattotti nelle opere citate – trovano qui un eco paradossalmente anticipatorio con i riferimenti a un altro futurismo, quello di Mario Sironi.
Le sue infinite variazioni dei Paesaggi urbani, compresi i Paesaggi con tram, sono qui riscontrabili in alcune immagini dalle prospettive sorelle. Ma sono al contempo rilette, fusionate, potremmo dire, coniando un termine tardo-futurista, con i colori e le forme di Prampolini e soprattutto di Depero. O meglio, sotto la scorza visionaria, poetica e multicolore di Depero c’è l’interiorità dell’umano persosi nelle prospettive cittadine, alienanti e un po’ mistico-metafisiche, di Sironi. L’uno racchiude l’altro in un organismo unico. E le architetture cittadine presenti in opere successive di Mattotti come L’uomo alla finestra, Stigmate o La Zona Fatua, distorte, incombenti, talvolta opprimenti e inquietanti fino al punto da suscitare un sentimento di finitudine delle cose, se non di apocalisse, sono figlie della visione di Sironi, anche se fuse con ulteriori influenze pittoriche.
I celebri Paesaggi urbani, concepiti nei primissimi anni venti e dalle molte varianti, anticipano il nuovo contesto che viene a profilarsi nella seconda metà di quel decennio, dove l’ordine prospettico ortodosso viene gradualmente sostituito da architetture sovradimensionate, le quali fagocitano un uomo sempre più sperduto che pare deambulare solitario, quasi come un animale ormai raro e terrorizzato, all’interno di architetture inumane a lui incomprensibili, aliene e alienanti. L’artista stesso, d’altra parte, soffre di continue depressioni e frequenti disturbi psichici, un epicentrico all’ennesima potenza.
L’Italietta allo specchio
Atmosfere cupe, solitudini, una spazialità metropolitana quasi oceanica spezzata, oltre che dai rari passanti, quasi soltanto da tram o camion, entrambi motivi ricorrenti, soprattutto il secondo (e che sostituiscono l’aeroplano, prova di come Sironi sia ben poco dinamico, ben poco futurista). L’angoscia stordita, lo spaesamento profondo nella rappresentazione fornita da Sironi della civiltà urbana e industriale ai suoi albori, paradossalmente, sembra quasi sabotare dall’interno dell’opera d’arte – a una lettura profonda – il suo essere artista di riferimento del regime fascista. Si trova all’opposto del magnificare gli ambienti metropolitani, come fanno invece Carrà o il suo grande amico Boccioni. Come Spartaco-Mattotti nell’Italietta reinventata del secondo dopoguerra, Sironi è “un metafisico smarrito nel mondo futurista” (4) sentenzia tout court Wieland Schmied. “I suburbi di Sironi, così come l’artista li dipinge tra il 1919 e il 1924, appaiono (…) trasformati. Sono luoghi abbandonati dall’uomo, inquietanti. Le piazze metafisiche di De Chirico si sono trasferite ai margini della città. La vera Piazza d’Italia, per Sironi, non sta nel centro, bensì nella periferia” (5).
E il Sironi della fine del ventennio, quello di quadri come L’architetto (1922) o Costruttori (1929), manifesta forse il pessimismo divorante di chi vede la fine della civiltà umana. “Quasi che avessero troppo osato, ora sono minacciati dalle loro stesse realizzazioni. Barcollano. Non vacillano già gli edifici, i muri, le torri? Già ci pare di conoscerne il destino. I costruttori saranno distrutti proprio da ciò che hanno creato” (6).
Non stupiscono quindi le parole di uno storico e teorico dell’arte come Jean Clair, apocalittico e “reazionario” ma intelligente, che si è occupato a più riprese dell’opera
di Sironi: “Per la mostra Les realismes entre révolution et reaction 1919-1939 mi sono chiesto se fosse possibile esibire opere di Mario Sironi che sapevo essere il pittore ufficiale del regime fascista. Ciononostante era un artista geniale. Ricordo che all’epoca ho chiesto consiglio a Mario De Micheli, critico d’arte dell’Unità, che mi aveva risposto che dovevo sicuramente includere in mostra le opere di Sironi e mettere in luce la sua grandezza nel cogliere perfettamente la miseria, la melancolia, l’orrore dei paesaggi urbani della periferia di Milano e la miseria del popolo italiano dell’epoca” (7). L’arte di Sironi è già in parte un futurismo rovesciato, perfetto – dunque – per essere integrato nel processo di fusione mattottiano.
Nel caso di Spartaco è tuttavia più l’Italietta degli anni cinquanta e sessanta a essere rappresentata nei ricordi del protagonista bambino, ma anche quella a cavallo tra i settanta e gli ottanta per lo Spartaco adulto. E la Milano che, da lombardo, Mattotti edifica in una girandola di colori, se è forse più allegra per via del boom, mantiene però alcuni punti di contatto con quella dei decenni precedenti. Soprattutto, anticipa quella dei suoi libri successivi.
Dopo il futurismo rivisto col senno di poi, Mattotti amplierà infatti tutti questi aspetti in maniera via via più matura e profonda. Riletti oggi, due graphic novel più “sceneggiati” del solito e fondati sul bianco e un segno dal nero filiforme quali sono L’uomo alla finestra e Stigmate, quest’ultimo realizzato con lo scrittore Claudio Piersanti, sono, come ho avuto modo di scrivere altrove in occasione della loro recente ripubblicazione per queste stesse edizioni, “più forti perché colgono con una precisione quasi chirurgica due stati del mondo di oggi che sembrano quasi giunti a un punto di non ritorno. Quello del senso di solitudine e alienazione, anche se non del tutto privo di speranza, di chi vive dominato dalle architetture delle grandi metropoli e il conseguente bisogno di amore che sfocia purtroppo nell’incomunicabilità. E quello della solitudine più dura vissuta da chi è marginale, reietto, come il senza dimora o l’immigrato che oggi più che mai viene allontanato se non picchiato, conseguenza del crescente imbarbarimento delle nostre società abbandonate a sé stesse e svuotate dei valori di civiltà, tolleranza, comprensione e comune progresso tra esseri umani. Due stati del mondo che a ben vedere in Mattotti sono sempre il riflesso di stati dell’anima, o del mondo interiore se si preferisce, qui in simbiosi con i suoi due coautori. Con grande forza poetica e originalità, sono due opere che esprimono prima di tutto un amore profondo verso gli esseri più fragili e, per estensione, verso ogni essere umano. Perché ci ricordano che in fondo siamo tutti fragili, come diceva il titolo di una celebre canzone di Sting” (8).
Dunque, emerge con sempre maggior chiarezza che Il signor Spartaco è l’opera primigenia del secondo Mattotti, quella da cui tutto è fiorito. (…) Perché tutto con Mattotti è (ri)partito da Il signor Spartaco e per questo oggi – tutti noi – possiamo tornare, con coscienza pienamente consapevole della sua importanza storica, a rileggere, con attenzione profonda e con piacere infante insieme, le gesta, immobili e dinamiche, di un Bonaventura spaurito alle prese con la violenta presa di coscienza del reale.
Note
(1) Enrico Crispolti, Storia e critica del futurismo, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 22.
(2) Marc Voline, Gladiatore della realtà, prefazione a Il signor Spartaco. Viaggio di un epicentrico, Coconino Press, Bologna 2005, p. 3.
(3) Enrico Crispolti, op. cit., p. 23.
(4) Wieland Schmied, Il metafisico smarrito. Mario Sironi tra futurismo e novecento, in Mario Sironi 1885-1961, catalogo dell’esposizione presso la Galleria nazionale d’arte moderna, Electa, Milano 1993, p. 42.
(5) Wieland Schmied, op. cit. p. 44.
(6) Ivi, p. 47.
(7) Dialogo sulla pittura. Una conversazione con Jean Clair, colloquio tra Jean Clair e Gabriella Belli, a cura di Giulia Morucchio, 2017, Atpdiary.
(8) Francesco Boille, Lorenzo Mattotti trasforma in poesia il caos della vita, Internazionale, 5 gennaio 2019.
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