Il 21 maggio presso la corte costituzionale sudcoreana si è svolta l’udienza conclusiva di una causa intentata contro il governo di Seoul da un gruppo di genitori, secondo i quali gli impegni della Corea del Sud in materia di riduzione delle emissioni non sono sufficienti a limitare il cambiamento climatico e quindi a garantire il diritti fondamentali dei loro figli (il più piccolo dei quali non era ancora nato quando il procedimento è stato avviato), come quelli alla vita, alla felicità e a un ambiente sano.

Il principio è lo stesso che negli ultimi anni ha guidato un numero crescente di processi analoghi in Europa e negli Stati Uniti, ma è la prima volta che la strada della cosiddetta “giustizia climatica” viene intrapresa in Asia.

Il fatto che il processo si svolga in Corea del Sud lo rende ancora più significativo. È uno dei paesi più ricchi e avanzati al mondo, sede di molte industrie ad altissima tecnologia, ma la sua quota di energia prodotta da fonti rinnovabili è una delle più basse tra gli stati sviluppati e i suoi pur modesti impegni di riduzione delle emissioni sono stati regolarmente disattesi.

Il verdetto della corte è atteso entro la fine dell’anno, e se fosse favorevole ai genitori potrebbe costringere il governo ad adottare obiettivi più ambiziosi nei suoi contributi determinati a livello nazionale (Ndc), i piani in cui i firmatari degli accordi di Parigi devono esporre la loro strategia per abbattere le emissioni di gas serra.

Gli attivisti locali inoltre sperano che una vittoria possa ispirare altre iniziative simili nei paesi vicini e accelerare la transizione energetica in Asia, il continente che più di ogni altro sarà cruciale per la lotta al cambiamento climatico.

L’esperienza dei paesi occidentali dimostra che la giustizia climatica può avere effetti concreti, scrive Nature. In alcuni casi i governi condannati per l’insufficienza delle loro misure, come la Germania e i Paesi Bassi, hanno preso provvedimenti significativi in tempi molto brevi. E anche quando le cause sono state respinte hanno dato più visibilità alla crisi climatica e stimolato l’attivismo.

Ma a volte anche una vittoria di alto profilo può non essere sufficiente a vincere la resistenza della politica. Il 22 maggio la commissione affari legali del senato svizzero ha approvato a larga maggioranza una dichiarazione che respinge il verdetto con cui ad aprile la Corte europea dei diritti umani aveva definito insufficienti le misure adottate dalla Confederazione sul clima, accogliendo il ricorso di un gruppo di anziane elvetiche.

La sentenza era stata accolta con soddisfazione dagli attivisti di tutta Europa, ma in Svizzera, dove nel 2021 una legge sul clima più ambiziosa era stata bocciata in un referendum, aveva suscitato critiche trasversali perché in contrasto con la democrazia. La commissione ha confermato questa tesi, affermando che la corte è andata al di là dei suoi poteri.

Nel frattempo un’altra corte sovranazionale, il Tribunale internazionale del diritto del mare, ha stabilito un importante precedente in materia di giurisprudenza sul clima. Esprimendo un parere richiesto da nove piccoli stati insulari, i giudici hanno stabilito che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane possono essere considerate inquinanti marini, a causa dei loro effetti diretti (come l’acidificazione delle acque) e indiretti (dovuti al riscaldamento globale) sugli oceani. I 149 stati firmatari della convenzione delle Nazioni Unite sulla legge del mare sono quindi tenuti a fare il necessario per limitare le emissioni.

Il pronunciamento non è automaticamente vincolante, ma istituisce un altro obbligo a lottare contro il cambiamento climatico, in aggiunta a quello derivante dagli accordi di Parigi, e potrà influenzare i pareri che la Corte interamericana dei diritti umani e la Corte internazionale di giustizia dovranno esprimere a breve sullo stesso argomento.

Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta

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