Questo articolo è uscito il 30 luglio 1999 nel numero 294 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano statunitense The Washington Post, con il titolo Arms and the boy.
La prima volta che l’ho visto mi è apparso come un guizzo rosso nello specchietto retrovisore della macchina. Stavo girando da sola per la Cisgiordania sotto una pioggia gelida e fitta, quando un blocco di cemento si è infranto contro il mio parabrezza. L’auto ha zigzagato sulla strada sdrucciolevole, fermandosi infine a pochi passi dal tronco di un robusto cedro. È stato allora che ho intravisto Raed: un ragazzo esile con una pietra in mano, che stava con un gruppo di giovani all’ingresso di un campo profughi palestinese. Aveva il viso coperto da una kefiyah a quadri rossi; si vedevano solo gli occhi.
I ragazzi si sono dispersi come uccelli spaventati quando sono saltata giù dalla macchina. “Aspettate!”, ho gridato in arabo. “Sono una giornalista, voglio parlarvi”.
Raed si è rimaterializzato sul cumulo di macerie. “Vattene!”, ha gridato in inglese. “C’è gente che ti vorrebbe ammazzare in questo campo!”.
Era la fine di dicembre del 1987, ed ero in Israele da meno di una settimana; una nuova arrivata senza contatti e con poca esperienza. Il mio direttore mi aveva chiamato da New York la sera prima, chiedendomi il ritratto di uno dei ragazzi che lanciavano pietre, la cui improvvisa rivolta aveva sbalordito Israele. Mi stavo giusto scervellando sul modo per trovarne uno quando il blocco di cemento ha colpito la mia macchina.
Stavo in piedi sotto la pioggia, con un blocchetto per gli appunti fradicio e i capelli che pendevano giù bagnati come code di topo, tentando di circuire il ragazzo per farmi raccontare la sua storia.
“Sono troppo occupato adesso”, ha detto controllando le targhe delle auto che si avvicinavano per vedere se erano blu, ossia palestinesi, o gialle, ossia israeliane. “E se comincio a parlare di questo argomento non mi fermo più”. All’apparire di una Fiat con la targa gialla si è teso come un lanciatore di baseball e ha tirato il suo blocco di cemento. Il lancio era troppo corto, e il blocco si è infranto sull’asfalto senza causare danni. “Non è stata una buona giornata”, ha sospirato. “Praticamente non ho danneggiato nessuna macchina”.
L’urlo di una sirena che si stava avvicinando ha reso ancora peggiori le prospettive della sua giornata. Mentre svaniva nel groviglio di vicoli del campo, ho proseguito per la strada principale e mi sono infilata in un piccolo negozio di frutta e verdura, per sfuggire alla confusione dell’arrivo della pattuglia dell’esercito. Quando sono uscita Raed è emerso da un edificio abbandonato sull’altro lato della strada. Dito sulle labbra, mi ha fatto cenno di seguirlo.
I corrispondenti se ne vanno sempre. Piombano nella vita di qualcuno, poi chiudono il blocchetto e partono
Incespicando su mucchi di immondizia e costeggiando furtivamente gli edifici, siamo arrivati a un’alta porta di metallo. Raed ha bussato piano piano, e la porta si è spalancata. Due paia di mani femminili lo hanno tirato dentro, e gli hanno strappato via in un attimo il giubbotto bagnato dandogli altri vestiti nel caso che gli informatori avessero descritto il suo abbigliamento ai soldati che cercavano i ragazzi. “Questa è mia madre Rahme”, mi ha detto, indicandomi la più piccola delle due donne. “E questa è la mia altra madre, Fatin. Non è esattamente mia madre, ma ha sposato mio padre dopo mia madre”. La parola araba è darra, co-sposa.
A quindici anni Raed era il più grande di tredici figli, bambini che vivevano nelle spoglie stanze della baracca. Il freddo si infilava fra le ruvide mura grigie. La pioggia gocciava dal tetto bucato. Le scuole erano chiuse fin dallo scoppio della rivolta, e tutti i bambini erano a casa. Molti avevano una terribile tosse e il naso che gli colava.
In mezzo a quel caos, le madri di Raed hanno cercato di essere ospitali con l’amica straniera di loro figlio, allontanando i bambini dal sottile materasso sul pavimento e offrendo cuscini. Raed ha inutilmente provato a familiarizzare con le strane sillabe del mio nome, decidendo infine di soprannominarmi “Jir”, come la pasta di olive che rimane dopo la spremitura.
La fattoria della nonna
Mentre Rahme serviva un piatto frugale di foglie di vite ripiene di riso suo figlio mi ha sciorinato un tipico racconto palestinese: “Mia nonna aveva greggi di pecore e uliveti. Aveva tutto quello che puoi immaginare”. Saccheggiando il suo vocabolario inglese in cerca di superlativi, ha descritto i filari ordinati di alberi da frutta che scintillavano sui pendii, gli agnelli pasciuti che in primavera pascolavano sui campi ben irrigati, i vassoi stracolmi di carne appena macellata a ogni pasto. Ma non aveva mai visto la fattoria di cui aveva un’immagine così vivida. Durante la guerra di indipendenza israeliana, nel 1948, la famiglia di sua nonna era fuggita dalla sua terra. Alla nascita di Raed lì sorgeva già una città israeliana.
Le visioni dei suoi sogni si proiettavano nel futuro oltre che nel passato. Se non fosse stato per la nakba – la catastrofe del 1948 – era certo che sarebbe diventato un medico. Ma con la vita che faceva adesso, sapeva che questa ambizione era irrealizzabile.
Mentre Raed tirava pietre alle auto israeliane, suo padre sostentava faticosamente la famiglia costruendo case per gli israeliani. Raed lo disprezzava perché “costruiva case per il nemico”, perché parlava correntemente l’ebraico e caldeggiava i negoziati di pace con gli ebrei. Raed, in disaccordo con suo padre, aveva scelto come mentore un seguace fedele di Arafat che insegnava inglese nella scuola del campo, con l’aggiunta di opinioni politiche radicali. Raed non si aspettava che suo padre gli avrebbe fatto finire gli studi. “Guarda tutte quelle bocche da sfamare”, diceva carezzando i capelli dei bambini che gli si affollavano attorno. Anche lui sarebbe diventato presto un operaio. Per adesso era un soldato di Arafat, armato di pietre. E anche se questo poteva costargli la vita, non gli sembrava un prezzo troppo alto da pagare.
Ho lasciato il campo all’imbrunire e mi sono diretta nuovamente verso Gerusalemme per la strada tortuosa. Mentre guidavo, mi tornava in mente la breve poesia World War i di Alfred Edward Housman: Here dead we lie because we did not choose / To live and shame the land from which we sprung. / Life, to be sure, is nothing much to lose; / But young men think it is, and we were young. Qui giaciamo morti perché non abbiamo scelto/Di vivere e offendere la terra da cui siamo nati. / Perdere la vita non è certo una gran cosa; / Ma per i giovani lo è, e giovani noi eravamo].
Con le sue membra ossute e quella peluria, malriuscita imitazione di un paio di baffi, Raed non era neppure un giovane uomo. Era un ragazzo. Sembrava innaturale che la vita gli fosse così indifferente.
Senza paura e senza speranza
Tornata nel tepore e nel lusso della mia stanza di albergo a cinque stelle, mentre il cameriere mi serviva la cena su un vassoio d’argento, ho battuto a macchina il ritratto di un palestinese giovane e intelligente, senza paura perché privo di speranze. Volevo che i lettori lo vedessero come lo avevo visto io: uno dei ragazzi dell’Isola che non c’è, che non poteva diventare adulto, che viveva di sogni perché la realtà gli era insopportabile. Quando il pezzo è uscito in prima pagina sul Wall Street Journal, io ero già a miglia di distanza dalla Cisgiordania, in un altro paese, a scavare nelle miserie di altre vite.
I corrispondenti esteri se ne vanno sempre. Piombano nella vita di qualcuno, assillandolo perché ne riveli i dettagli più terribili. Poi chiudono il blocchetto e si avviano verso il confine. Il palestinese si confonde con il curdo, il soldato ferito con la vittima della carestia, e in pochi mesi si riesce appena a ricordare i nomi.
Poi un giorno qualcuno – una persona migliore di te – ti dà un motivo per voltarti indietro.
La banconota da cento dollari è saltata fuori da una busta ed è rimasta sulla pila di lettere in attesa di risposta sulla mia scrivania al Cairo.
Ero diventata corrispondente del Wall Street Journal per il Medio Oriente nell’ottobre del 1987 con un raggio d’azione che copriva ventidue paesi. Nessuna esperienza precedente – quando mi occupavo di questioni ambientali in Australia o dell’industria di base a Cleveland – mi aveva preparato ai rigori di questo lavoro, alla complessità dei conflitti millenari, al caos e alla tensione costanti. A sei mesi dall’inizio dell’incarico ero riuscita a stare a casa appena il tempo per cambiarmi i vestiti, figuriamoci se potevo occuparmi della posta. E adesso un dottore del Texas mi scriveva a proposito di un articolo di mesi prima, chiedendomi di far arrivare quei soldi al ragazzo e di “fargli sapere che se vuole diventare un medico, sono pronto ad aiutarlo”.
Dannazione. Mi vergogno di quella mia prima, egoistica reazione. Ma ero esausta e sopraffatta. E non ero neanche certa di riuscire a trovare Raed. Temendo ritorsioni israeliane, si era rifiutato di dirmi il suo cognome. Non riuscivo assolutamente a ricordare dove fosse la sua casa nel labirinto di strade che avevo percorso nel campo. E avevo imparato a essere più cauta quando si trattava di andare da sola, alla cieca, in un campo profughi. Nei tre mesi trascorsi dal mio incontro con Raed l’intifada era cambiata. La rabbia spontanea e quasi euforica delle prime dimostrazioni era diventata una dura e amara prova di resistenza, in cui si infliggeva e si subiva dolore. Intrappolata nel fuoco incrociato, ero stata bersaglio dei lacrimogeni israeliani e delle pietre palestinesi almeno sei o sette volte.
In volo per Tel Aviv
La lettera sulla mia scrivania, però, prometteva un futuro a un ragazzo che non si aspettava di averne uno. Cento dollari erano più di quanto il padre di Raed guadagnasse in un mese. In Israele c’erano tante storie da raccontare. Ho chiesto alla mia assistente egiziana di prenotarmi un volo per Tel Aviv.
Era aprile. Le cime biancastre delle colline della Giudea erano ricoperte di un delicato velo verde. Per difendermi dai lanciatori di pietre mentre attraversavo in macchina la Cisgiordania, avevo imparato a mettere una kefiyah sul cruscotto e a scrivere “sahafyia” – giornalista – in grandi lettere arabe sul parabrezza.
I soldati israeliani avevano ostruito l’ingresso del campo di Raed con filo spinato e posti di blocco sulla strada. Sono sgusciata sotto il loro sguardo vigile e sono arrivata al piccolo negozio di alimentari. Ho detto al proprietario che stavo cercando un ragazzo di quindici anni che si chiamava Raed. L’uomo ha chiamato uno dei suoi figli per farmi accompagnare. Le sorelle di Raed mi hanno accolto calorosamente. Ero già seduta davanti a un bicchiere di tè dolce e a un vassoio di frutta quando ho realizzato che si trattava di un altro Raed: il giovane che era apparso sulla porta era molto più robusto dell’esile oggetto delle mie ricerche.
Aah, ha detto il ragazzo, c’era in effetti un altro Raed, un attivista dell’intifada anche lui. Abbiamo imboccato un vicolo e siamo entrati in una casa che mi è subito sembrata troppo ben arredata per essere quella che cercavo.
I due Raed si sono consultati su chi fosse la persona che cercavo. “Il padre del ragazzo che cerco ha due mogli”, ho detto per aiutarli. “Oh, quel Raed!”, hanno esclamato. Benché l’islam preveda la poligamia, pochi palestinesi la praticano ancora. “Lo conosciamo benissimo”, ha detto uno dei giovani, aggrottando la fronte. “Ma non lo troverai qui, purtroppo”.
Perdere la vita non è certo una gran cosa. L’ho improvvisamente visto, fragile e mingherlino, offrire il petto a un fucile israeliano, invitando una recluta adolescente a sparargli, spericolato e istintivo com’era. In aprile il bilancio delle vittime palestinesi, dall’inizio della rivolta, aveva ormai superato le cento e la maggior parte erano ragazzi come Raed.
“No, no”, ha detto il suo amico. “Non gli hanno sparato. L’hanno solo arrestato. Dicono che ha tirato una bomba molotov a dei soldati ebrei”.
Rahme, la madre di Raed, mi ha riconosciuto mentre mi avvicinavo alle porte metalliche di casa sua, e si è precipitata fuori per cingermi in uno stretto abbraccio. Dentro, le stanze cadenti avevano un aspetto ancora più misero di prima. L’unico pezzo di arredamento, un armadietto a vetrina, era stato fracassato durante una perquisizione dell’esercito.
Quella che era partita come una crociata di ragazzi era trasformata in una guerra logorante
Con uno dei ragazzi che faceva da interprete, Rahme e Fatin mi hanno sommersa coi racconti delle disgrazie degli ultimi tre mesi. Nel campo c’erano stati disordini, con lanci di lacrimogeni e spari quasi ogni giorno. Nel tentativo di ristabilire la calma il comandante israeliano della Cisgiordania aveva indetto un incontro con dei rappresentanti del campo. Mahmoud, il padre di Raed, con il suo ebraico fluente e le sue opinioni moderate, si era offerto di partecipare, riuscendo a ottenere di avere meno soldati dentro al campo in cambio della cessazione del lancio delle pietre sulla strada.
Raed, furioso per la collaborazione offerta dal padre, aveva immediatamente cercato di sabotare l’accordo organizzando una raffica di scontri violenti. Qualche giorno più tardi i soldati erano andati da Mahmoud e gli avevano ordinato di portare suo figlio negli uffici dell’amministrazione israeliana. Mahmoud sapeva benissimo che Raed sarebbe stato arrestato. Ma disubbidire all’ordine avrebbe significato rischiare di essere arrestato lui stesso, lasciando la famiglia priva dell’unico sostegno economico. E così il padre aveva consegnato il figlio.
Pericoli per la sicurezza
Poche settimane dopo Mahmoud era stato comunque arrestato. Era finito in una retata con una dozzina di altri e mandato in un campo di prigionia, notoriamente severo, nel deserto del Negev. Non c’erano accuse a suo carico; secondo la legge israeliana i palestinesi potevano essere tenuti in prigione per sei mesi se le autorità li giudicavano “un pericolo per la sicurezza”. E il risultato era che Mahmoud il moderato era diventato un militante anti-israeliano altrettanto agguerrito quanto suo figlio. L’esperienza di questa famiglia sembrava riflettere quello che stava succedendo in tutti i Territori occupati. Quella che era partita come una crociata di ragazzi, un’esplosione di energia rabbiosa, si era trasformata in una guerra logorante che coinvolgeva palestinesi di tutte le età.
Priva del suo unico sostegno economico, la famiglia sopravviveva a malapena con la razione di cibo mensile distribuita ai profughi dall’Unrwa (Ufficio di assistenza delle Nazioni Unite per i profughi della Palestina in Medio Oriente). Mi ero chiesta se fosse giusto portare lì dei soldi da parte di un dottore texano. In fondo ero una giornalista; non avrei dovuto aiutare e appoggiare una delle due parti in un conflitto di cui mi occupavo.
Ma l’espressione ansiosa e le facce magre ed emaciate dei bambini mi hanno fatto sentire felice, per una volta, di avere in mano qualcos’altro che il blocco degli appunti. Ho dato i cento dollari a Rahme e le ho raccontato del dottore americano e dell’aiuto che aveva promesso per il futuro. Rahme ha preso la banconota e l’ha baciata, invocando la benedizione di Allah su quello straniero nel lontano Texas.
Un uomo fortunato
Rex Repass si considerava già abbastanza fortunato. Era un oftalmologo, con uno studio assai bene avviato ad Austin; viveva in una grande casa nello stile del Sud, che lui stesso aveva progettato. A quarantacinque anni, con un successo professionale ormai assicurato, aveva il tempo di dedicarsi ai suoi interessi, dalla politica estera alle lezioni di volo.
Era cresciuto in una famiglia non ricca a Dallas, si era laureato all’Università del Texas lavorando, e si era poi arruolato in marina per avere accesso ai corsi di medicina. Aveva sempre avuto un carattere avventuroso: distaccato a Guam, si era offerto volontario per il monitoraggio meteorologico con la squadra antitifoni, che volava talvolta proprio nell’occhio dei cicloni dell’Oceano Pacifico. Poi aveva servito come medico sugli aerei in Vietnam. Tornato in Texas il suo animo coraggioso lo aveva spinto a candidarsi al Congresso per il Partito repubblicano contro il solido e, come poi è risultato, imbattibile detentore della carica, il democratico J. J. Pickle. A quarantatré anni aveva sposato una bella rappresentante di prodotti farmaceutici, di ventotto anni, che si chiamava Kathleen. La loro prima bambina, Claire, era nata nel maggio del 1987.
Ogni mattina leggeva il Wall Street Journal per tenersi aggiornato sul suo patrimonio azionario. Memore degli sforzi che aveva fatto per pagarsi l’università, aveva spesso aiutato giovani con simili difficoltà. Quando aveva letto del palestinese che sognava di diventare un medico aveva deciso di tentare di realizzare questo sogno.
Non molto dopo avermi scritto al Cairo, fra i tanti appelli per la raccolta di fondi accumulati sulla sua scrivania, Rex Repass ne aveva trovato uno da parte di un’organizzazione di profughi palestinesi di Washington. Aveva firmato un assegno e, in fondo alla lettera, aveva scritto: “Sarei felice di aiutare se potessi rendermi utile in qualche modo”.
Nell’ottobre del 1988 era in Israele, a lavorare nella sala emergenze dell’Ospedale oftalmico di St. John, nella parte palestinese di Gerusalemme. La mattina del primo giorno è arrivato un giovane, con l’occhio chiuso da tanto era gonfio e pieno di pus. Quando Repass gli ha sollevato la palpebra ha visto che il bulbo oculare era spaccato. Il giovane gli ha fatto vedere il proiettile di gomma che lo aveva colpito. Sebbene conoscesse tutto l’equipaggiamento dei militari in guerra, le armi usate per sedare i disordini gli erano invece ignote. I proiettili di gomma gli erano sembrati innocui quando ne aveva sentito parlare, come le pallottole di una pistola giocattolo. Repass ha soppesato in mano il duro cilindro nero e, dietro richiesta del giovane, lo ha tagliato in due. Dentro c’era un’anima di metallo grossa come una matita.
Alcune delle ferite che curava erano il risultato di incidenti comuni, esacerbati dalla tensione dell’intifada. Un tagliapietre aveva riportato una lacerazione all’occhio per una scheggia di pietra, ma invece di arrivare subito all’ospedale era stato fermato a un posto di blocco militare e costretto a rimanere per ore inginocchiato sotto il sole.
Repass viaggiava per tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, lavorando in piccoli ospedali e talvolta sulla sua stessa auto. Aveva curato un bambino, di non più di sei anni, che era stato colpito al viso col calcio di un fucile per aver disegnato su un muro una bandiera palestinese. Un altro bambino era stato ferito da schegge di vetro perché un soldato aveva sfondato una finestra per entrare a casa sua.
Repass è andato a trovare la famiglia di Raed, portando regali e denaro per aiutarli a superare l’inverno imminente. Uno dei fratellastri di Raed aveva un problema all’occhio che non era mai stato trattato seriamente, così Repass ha provveduto a fare la giusta diagnosi e a trovare le migliori lenti a contatto disponibili. La famiglia di Raed aveva preso subito dopo il suo arresto un avvocato, che però minacciava di abbandonare il caso se non avessero pagato il suo onorario. Repass si è occupato anche di quello.
Per anni avevo accettato senza pormi domande l’idea di mio padre sulla creazione di Israele
Quando è tornato ad Austin, mi ha mandato un biglietto con una foto di sua moglie, incinta per la seconda volta, che giocava con la loro piccola, Claire, sotto un albero di Natale di fronte a un gigantesco caminetto di marmo. Mi ha mandato anche un ritaglio dell’Austin American-Statesman: un articolo che aveva scritto sulle sue esperienze in Cisgiordania.
Quell’articolo mi ha sbalordito. Abituata alle sfumature che mi erano imposte come giornalista, ero scioccata dalla sincerità della sua rabbia. Io ero cresciuta con un padre che aveva fatto la Seconda guerra mondiale in Palestina diventando un sionista accanito. A vent’anni mi ero innamorata di un ebreo americano, convertendomi alla sua religione. Per anni avevo accettato senza pormi domande l’idea di mio padre sulla creazione di Israele: che le Nazioni Unite avevano ragione quando avevano votato per la divisione della Palestina e avevano dato metà della terra ai coraggiosi e volenterosi sopravvissuti all’Olocausto, pronti a trasformare quel deserto in un giardino. E se pensavo agli arabi che gli ebrei stavano scacciando, lo facevo attraverso la lente dello scrittore israeliano Amos Elon: per le migliaia di ebrei fuggiti dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale la Palestina era una scialuppa di salvataggio, su cui c’erano poche persone. Chi poteva contestare la scelta morale di salirci su? Quando i palestinesi avevano rifiutato la divisione e avevano fatto ricorso al terrorismo, sparando agli innocenti in fila all’aeroporto o agli atleti alle Olimpiadi di Monaco, la mia simpatia per gli israeliani era cresciuta.
È stato solo molto dopo, mentre mi preparavo al mio nuovo incarico in Medio Oriente, che ho cominciato a leggere le versioni palestinesi della storia: racconti di espulsioni spesso violente dai villaggi, di tradimenti da parte dei leader arabi a cui guardavano per la liberazione e di violazioni dei diritti umani sotto l’occupazione israeliana.
Ma sebbene la reazione estremamente dura di Israele nei confronti dell’intifada mi lasciasse costernata, il mio lavoro di giornalista mi portava a comprendere entrambe le parti del conflitto. E mi immedesimavo nell’ansia dei sopravvissuti all’Olocausto, nel dolore delle vittime del terrorismo e nei dubbi di tanti giovani soldati che odiavano le loro nuove consegne da poliziotti antisommossa.
Il vento del tempo
Rex Repass vedeva le cose diversamente. A casa, in Texas, aveva degli amici arabi che erano sconvolti da quello che vedevano come l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti a Israele. Una volta arrivato all’ospedale St.John, aveva vissuto e lavorato con i palestinesi e aveva incontrato gli israeliani vedendoli come loro, in veste di aggressivi vessatori ai posti di blocco, di soldati che puntavano le loro armi contro ragazzini che lanciavano pietre. Il suo articolo stigmatizzava la “mentalità gangsteristica” di Israele e profetizzava che “il vento del tempo” avrebbe “spazzato via la minaccia israeliana”.
A Raed sarebbe piaciuto tanto. Ma non c’era modo di far passare un articolo così incendiario attraverso la censura della prigione. Non ero neanche riuscita a ottenere di dargli un romanzo innocuo come Il vecchio e il mare di Hemingway. Raed aveva atteso per mesi il processo, il suo caso perso fra le centinaia che avevano sommerso il sistema giudiziario militare israeliano.
Sono riuscita a vederlo un giorno per un attimo nell’aula del tribunale, quando il suo caso, che era previsto per quella data, è stato nuovamente aggiornato. Era infervorato, orgoglioso di trovarsi fra gli eroi palestinesi della rivolta. La reclusione in prigione non aveva ancora cominciato a pesargli; la sua vita nel campo era stata così limitata e senza privacy che la differenza, fino a quel momento, sembrava minima. “Ci sono molti insegnanti che sono stati arrestati, Jir, così posso studiare ogni giorno con loro”, mi ha detto. Stava migliorando il suo inglese: scriveva liste di vocaboli dal dizionario e ne memorizzava almeno venti al giorno.
C’erano molte cose che lo incuriosivano. I prigionieri avevano a volte il permesso di guardare la tv israeliana che trasmetteva serie e commedie televisive americane. Per un ragazzo cresciuto nell’atmosfera islamica conservatrice del campo, in cui le donne erano velate e i contatti fra i due sessi severamente controllati, queste sbirciate momentanee nel mondo occidentale erano intriganti e sconcertanti nello stesso tempo. Il suo programma preferito era, diceva, Thirty and Something , anche se spesso lo lasciava sconvolto. “Jir, spiegami, come mai questa donna, che si chiama Hope, apre il suo cuore a uomini che non sono suo marito?”.
È passato più di un anno prima che Raed fosse giudicato e condannato. Ho mandato un messaggio a Rex Repass, dicendogli che finalmente c’era stata la sentenza. Mentre scrivevo l’indirizzo in Texas sulla busta pensavo ai chilometri e agli anni che separavano l’offerta di aiuto del dottore da quel ragazzo che ne aveva ora un disperato bisogno.
Raed, alla fine, ha scontato cinque anni di condanna. Mentre lui era confinato in cella, io ho percorso migliaia di chilometri. Mi sono trasferita dall’Egitto in Gran Bretagna, così invece di non essere mai a casa nella calda e polverosa città del Cairo, non ero mai a casa nella fredda e nebbiosa Londra. La guerra si è trasformata in pace in Libano, l’ayatollah Khomeini è morto a Teheran, Saddam Hussein ha invaso il Kuwait, eserciti moderni si sono ammassati in antichi deserti, e i profughi si sono riversati su posti di confine fra montagne innevate.
Un’altra specie di prigione
Quando sono riuscita a tornare in Cisgiordania era ormai il 1993. I palestinesi erano usciti indeboliti dalla Guerra del Golfo per l’appoggio dato a Saddam. Ma negli strascichi del conflitto alcuni vedevano delle aperture per la pace. I palestinesi si erano seduti di fronte agli israeliani in una lussuosa sala a Madrid, e sebbene la retorica della conferenza di pace fosse stata assai rigida, si sentiva un vago senso di possibilità nell’aria.
Era già aprile quando sono arrivata in Cisgiordania. Raed era uscito di prigione da due mesi solo per rientrare subito in un’altra specie di prigione. Lavorava sedici ore al giorno, producendo sandali di plastica in una fabbrica di sfruttatori, dove dormiva sul pavimento, nelle pause fra i turni, per risparmiare i soldi degli spostamenti. Tornava a casa solo il giovedì sera, per passare la sua giornata libera con la famiglia.
Ho chiamato la fabbrica e gli ho lasciato un messaggio dicendo che sarei andata a prenderlo il giovedì successivo, all’uscita dal lavoro. Appena messo giù ho fatto subito un altro numero: una telefonata intercontinentale stavolta, alla clinica oftalmica di Rex Repass ad Austin. La centralinista mi ha risposto col suo amichevole accento texano. Le ho detto il mio nome, e ho chiesto di parlare col dottore.
C’è stato un attimo di silenzio dall’altra parte del cavo.
“Mi dispiace, ma il dottor Repass è morto un anno e mezzo fa”.
Pioveva di nuovo il giorno in cui la mia macchina si è arrampicata su per la strada, appena tracciata da un bulldozer, che portava alla fabbrica. Ho visto Raed prima che lui mi vedesse: era pallido e magro, col volto consumato dalla fatica.
Mentre facevo manovra sull’argilla scivolosa per tornare sulla strada principale, lui mi ha sciorinato il rituale elenco di domande di cortesia degli arabi: come stavo, come stavano mio marito, i miei genitori, mia sorella, i genitori di mio marito? E alla fine è arrivato alla domanda che temevo: e come stava il dottor Rex?
Raed, ho detto, ti devo dare una cattiva notizia.
Rex Repass era morto fra i rottami contorti del Beechcraft Bonanza che aveva comprato dopo più di tre anni di lezioni di volo. Era con suo cognato, un pilota da combattimento appena tornato da decine di missioni nell’operazione Tempesta nel deserto. Doveva essere un volo breve in un pomeriggio d’autunno soleggiato, ha detto a sua moglie, che si stava occupando del loro terzo figlio, nato appena sette mesi prima. Sarebbero stati di ritorno per vedere le finali di baseball. Invece l’aereo è precipitato e nessuno, né gli ispettori della Federal Aviation Administration né gli investigatori privati della famiglia, erano riusciti a capire come.
Raed si è girato e si è messo a guardare dal finestrino laterale, mentre i tergicristallo strusciavano e sbattevano sul parabrezza. Ho guidato per chilometri prima che parlasse. “Il destino”, ha detto alla fine, “non è stato gentile con me”.
Raed occupava la sua unica giornata libera in lunghissime passeggiate sugli austeri pendii delle colline cisgiordane. Camminava veloce, e i suoi lunghi passi facevano cadere dietro di lui cascate di pietre. Era come se, andando tanto lontano e veloce, volesse arrivare a coprire una distanza con cui rifarsi per gli anni di reclusione.
Un’altra verità
La pioggia era cessata, e la terra arida l’aveva assorbita come se non fosse mai caduta. Le pietre bianche, ripulite dal loro velo di polvere, scintillavano sullo sfondo del limpido cielo azzurro. Raed parlava mentre camminava, le sue parole rotolavano come pietre. Voleva che capissi cose della sua famiglia che avevo solo intravisto nelle mie brevi visite: suo padre, così affabile e sicuro di sé, era capace di collere violente; la quasi totale cecità di suo fratello era il risultato delle brutali percosse del padre; sua madre, Rahme dalle guance rosee, era una prigioniera in quella casa, la sposa rifiutata e spodestata che temeva il divorzio perché secondo la legge islamica il padre avrebbe avuto in custodia i figli.
“Mia madre sta solo aspettando noi”, ha detto Raed. “Appena le mie sorelle avranno finito la scuola, e io potrò mantenerle, non dovrà più sopportare tutto questo”. Fatin, la moglie più giovane, aveva avuto un altro figlio mentre Raed era in prigione e adesso era di nuovo incinta. Scuoteva il capo di fronte alla noncuranza di suo padre. “Non riesce a dar da mangiare ai bambini che ha, e continua a farne altri”.
Raed vedeva il suo futuro schiacciato fra le pareti di cemento della sua casa affollata. Per cinque anni si era aggrappato alla promessa di uno straniero, che non avrebbe più potuto mantenerla. Era fuori dalla prigione, ma temeva che non sarebbe mai stato libero.
Ho lasciato Raed ad affrontare un’altra settimana alla fabbrica di scarpe. Nei giorni che mancavano al suo ritorno ho fatto un giro di telefonate ai palestinesi influenti che conoscevo: professori e giornalisti, volti famosi dei talk show televisivi che si pronunciavano con tanta eloquenza in favore dei loro fratelli profughi. Certamente uno di loro avrebbe avuto un’idea per aiutare un giovane intelligente che aveva sacrificato tutto per la loro causa.
Ma sorseggiando spremute di arance nel portico ombroso della tenuta di un professore, o caffè nell’ufficio ben arredato di un collega che scriveva per un settimanale americano, la risposta che ricevevo era sempre la stessa: “Ci sono centinaia di Raed, perché dovremmo aiutare proprio questo?”. In quella settimana ho compreso una verità sulla società palestinese che non avevo mai notato prima: lì le differenze di classe sono così forti che al confronto gli inglesi sembrano egualitari. “Hai davvero dormito in un campo?”, mi ha chiesto una professoressa con un’acconciatura impeccabile, rabbrividendo nelle esili spalle. “Hai mangiato del cibo cucinato in quel sudiciume?”.
Uno dei miei conoscenti, un signore garbato con un vestito di sartoria londinese, mi ha chiesto cosa faceva adesso Raed. Gli ho raccontato degli orrori di quella fabbrica di sfruttatori, degli orari impossibili e del lavoro continuo e ripetitivo.
“Ma fare scarpe è un buon mestiere per un ragazzo dei campi. Questi ragazzi poveri non possono davvero aspettarsi di meglio”.
Mentre mi allontanavo dal suo elegante ufficio con tappeti di seta, ho pensato che forse gli israeliani avevano ragione quando sostenevano che la miseria dei campi conveniva ai palestinesi delle classi più alte. Molti di loro avevano mandato i figli al sicuro all’estero durante l’intifada. Per loro la rabbia di giovani come Raed era un’arma utile contro il nemico. Che continuino a non avere nulla da perdere, e potranno finire facilmente nell’esercito segreto di assassini armati di coltello e attentatori suicidi.
Un futuro per Raed
Mentre guidavo per Gerusalemme, e il cielo al tramonto passava rapidamente dal rosa all’oro e all’acquamarina, sapevo cosa avrei detto a Raed quando l’avrei visto venerdì. E non era che il suo futuro sarebbe stato fabbricare scarpe di plastica.
Ecco infine una storia da cui non potevo fuggire.
Nel settembre del 1993 Raed si è iscritto a una scuola di Hebron in cui avrebbe potuto recuperare in un solo anno tutte le superiori, che non aveva frequentato. Poco dopo aver cominciato gli studi, è successo l’impensabile: Rabin e Arafat si sono stretti la mano sul prato della Casa Bianca e hanno promesso una pace imminente. L’improvvisa riconciliazione degli accordi di Oslo diffondeva ovunque nuove speranze, e per la prima volta nella sua vita Raed si è concesso di pensare che, dopo tutto, un futuro ce l’aveva.
Era la metà dell’anno scolastico quando un colono israeliano ha aperto il fuoco in una moschea di Hebron, uccidendo ventinove musulmani in preghiera. A Hebron è scoppiata la rivolta. Gli israeliani hanno risposto col coprifuoco. Raed andava a scuola quando poteva, cercando di stare alla larga dai soldati che lo avrebbero sempre considerato una minaccia all’ordine pubblico col suo passato di galeotto.
Aveva ormai ventun anni quando, nel semestre dell’autunno 1994, ha dato gli esami ed è stato accettato all’Università di Betlemme, gestita dai palestinesi. Mi ha detto che si sentiva troppo vecchio per imbarcarsi nel lungo corso di studi di medicina. Avrebbe invece studiato inglese, la lingua che amava, per diventare un insegnante, come colui che l’aveva influenzato.
Costruita sulla cima di una collina fra giardini di rose impeccabilmente curati e cespugli di buganvillea, l’università cristiana era per Raed un’esperienza unica rispetto allo squallore del mondo a lui noto. Ogni giorno lasciava i fetidi cumuli di immondizia, le carcasse di topo in decomposizione e il grigio cemento screpolato del campo profughi per la fresca erbetta dei prati ben curati e l’ombra dei giardini di cipressi del campus. All’alba lo svegliava il cacofonico concerto del campo: l’ululato dei cani randagi, il canto dei galli, il rumore costante di gente che viveva troppo ammassata. A metà mattina era già avvolto nel silenzio miracoloso della biblioteca dell’università. Per un ragazzo che aveva custodito come un tesoro il suo mucchietto di libri sgualciti, avere improvvisamente accesso a migliaia di volumi era un invito a nozze. Aggirandosi per le sale di marmo immacolate e sbirciando le ragazze cristiane sicure di sé, coi loro vestiti corti e sbracciati, sentiva che il suo universo si espandeva in direzioni che non sarebbe neanche riuscito a immaginare.
Ma doveva lavorare duro. Gli sembrava impossibile riuscire a mettersi alla pari con i colti rampolli delle famiglie ricche palestinesi. Parlandomi, per lettera, delle sue ansie mi scriveva che “stava sulle spine” riguardo alla sua possibilità di riuscire. Il suo metodo di studio dell’inglese parola per parola dal dizionario non lo aveva preparato all’uso libero dell’idioma da parte dei professori formati negli Stati Uniti. Un professore aveva descritto un testo letterario come “un guazzabuglio” (“hodgepodge”) e Raed ci aveva messo settimane a indovinarne il significato. “Non riuscivo neanche a trovarlo sul dizionario perché lo avevo scritto come mi suonava all’orecchio: ‘hojboj’. E non potevo certo trovarlo così!”.
Ma i nuovi autori che leggeva lo appassionavano. Il simbolismo malinconico di Edgar Allan Poe si intonava ai suoi momenti neri. La Bisbetica domata di Shakespeare e Casa di bambola di Ibsen riflettevano da vicino la chiusura della sua stessa società. Raed mi ha scritto che la più piccola delle sue sorelle di sangue, la spumeggiante Nasreen, era stata data in sposa da suo padre a un uomo pigro, violento e vendicativo. Dopo un solo anno il matrimonio era in crisi. Non ancora ventenne, Nasreen era in trappola, come lo era sua madre. Lasciare il marito avrebbe significato per lei perdere la sua bambina neonata assieme alla sua reputazione nel campo. Raed si era opposto al matrimonio e avrebbe voluto avere l’autorità per tener testa a suo padre.
La tensione è salita nel febbraio del 1995, quando Mahmoud ha picchiato Rahme, la madre di Raed, facendole cadere due denti. Raed aveva cercato di difenderla, ma non poteva competere con il padre, che il suo lavoro da manovale aveva reso un fascio di muscoli. Mahmoud aveva bruciato gli amatissimi libri di testo di Raed e le tesine che aveva tanto tribolato per scrivere, e lo aveva cacciato di casa.
Raed con sua madre e i suoi fratelli di sangue si è trasferito dalla nonna. La sua casa era fatta di tre stanze di cemento pericolanti che si aprivano su uno spazio protetto da una tettoia di lamiere ondulate sconnesse. L’unico bagno era un cabina all’esterno, con acqua fredda e una buca in terra come gabinetto.
La cosa più strana
La sua vita si stava infine assestando in una precaria routine. Fra le razioni distribuite dall’Onu e la piccola somma che gli spedivo io, Raed riusciva a mandare avanti la famiglia. “Per me”, scriveva, “la cosa più strana non è la capacità di Dio di nutrire ovunque gli uccelli, ma la sua filosofia, l’averti creato in America per aiutare me in Palestina, mentre chi mi sta più vicino e ha maggiori responsabilità nei miei confronti (mio padre che avrebbe il dovere di prendersi cura di me) mi ha abbandonato”. Era, mi ha detto, “oppresso dai molti debiti”, ma riusciva in qualche modo a destreggiarsi con le spese tanto da poter mandare suo fratello e sua sorella a un college finanziato dalle Nazioni Unite. Impegnandosi nello studio era riuscito ad arrivare alla media della B (il massimo è A).
Nel dicembre del 1995, quando Raed mi ha mandato i risultati del semestre autunnale, la lettera sembrava giungere da un altro paese. Invece dei francobolli israeliani e dei timbri della posta ebraica, questa aveva i francobolli dell’amministrazione palestinese, con sopra la bandiera che era stata vietata fino a qualche mese prima.
“Cara Jir, Buon Natale e lunga vita a te. È stato un bellissimo giorno quello in cui il nostro leader Yasser Arafat è entrato a Betlemme. Molta gente si è raccolta per incontrarlo nella grande piazza vicino alla chiesa della Natività”.
Raed scriveva che era stato lì, ad acclamare con le migliaia di persone che credevano che la loro lunga battaglia fosse quasi finita.
Ma come tutti i momenti di speranza della sua vita, anche questo si è rivelato passeggero. Sia in Israele sia nei Territori occupati, a esercitare veramente il potere erano le cellule oscure degli estremisti nascosti, e non le folle giubilanti alla luce del sole. Attentatori suicidi musulmani hanno fatto saltare autobus israeliani; un sicario ebreo ha ucciso Rabin. L’elettorato israeliano ha nervosamente eletto Benjamin Netanyahu primo ministro, e i palestinesi hanno imparato a conoscere meglio i loro leader.
“3 settembre 1996
Cara Jir, il nostro nuovo governo, invece di promuovere lo sviluppo e il progresso… sta uccidendo persone innocenti e mettendo innocenti in prigione senza un processo…”. Il fratello di Raed era stato arrestato, spogliato e picchiato dalla polizia palestinese, a causa della denuncia infondata di un vicino astioso. Invece di distribuire gli aiuti ai più bisognosi nei campi, i funzionari palestinesi avevano intascato milioni dagli aiuti umanitari internazionali e poi avevano imposto un mucchio di nuovi oneri a persone che non avevano modo di pagarli. “La vita qui non cambia …”.
Per me invece la vita era cambiata. Quando Raed aveva finito gli studi, io mi ero già stabilita in un paesino di 250 abitanti in Virginia, avevo lasciato il mio lavoro e avevo un bambino. Mentre cullavo mio figlio nella veranda per farlo addormentare, mi sembrava fossero passati più di dieci anni da quando ero la giornalista ansiosa che penetrava nel campo profughi di Raed.
In una piazza di Betlemme
Gli avevo sempre promesso che sarei andata alla sua cerimonia di laurea. Così l’estate scorsa, in una calda mattinata di luglio, mi sono ritrovata in Cisgiordania, in una piazza affollata di Betlemme, cercando fra i volti il giovane uomo che non vedevo da cinque anni.
Era diventato molto più alto, la sua gracilità adolescenziale si era trasformata in un bel fisico scolpito. Era diventato anche più pacato: le ondate di nervosa energia di una volta si erano trasformate in un atteggiamento di calma virile. Abbiamo passato la giornata a camminare, mentre lui raccontava tutto quello che non poteva dire per lettera.
Voleva farmi vedere l’università prima che si riempisse di studenti e di genitori per la cerimonia del giorno seguente. Ci siamo seduti su una panchina ai limiti del campus. Il terreno declinava bruscamente, scoprendo un’ampia visuale sulle ondulate colline desertiche, coperte di foschia. La collina più vicina, Jebel Abu Ghneim per gli arabi, Har Homa per gli ebrei, era sfregiata dalle strade appena scavate per un nuovo insediamento ebraico, la cui costruzione era molto discussa. “Rovinerà l’attività turistica a Betlemme, naturalmente”, ha detto Raed. “Gli ebrei costruiranno lì un grande albergo e porteranno i turisti in autobus a vedere la chiesa della Natività e la piazza della Mangiatoia, così nessuno spenderà più soldi a Betlemme”.
Cinque anni buttati
Aveva un tono realistico, la sua voce suonava sconfitta, priva di quella ardente rabbia che aveva animato il giovane lanciatore di pietre di dieci anni prima. “Non mi piace più parlare di politica, ed è un peccato”, ha ammesso. “Israele è stato furbo a lasciar tornare qui Arafat e i suoi uomini. Come fai ad avere sentimenti nazionalistici quando è un palestinese che ti controlla? E come puoi criticarlo? Se lo fai, sei un traditore o una spia. Così pensi alle cose terrene: il cibo, la casa, i soldi. Non pensi a cose astratte come il nazionalismo”.
Gli ho chiesto che sentimenti aveva per il ragazzo che era stato, il soldato di Arafat che aveva rischiato così tanto in quel dicembre freddo e rabbioso del 1987. “Mi ricordo come mi sentivo allora, quando pensavo che forse con le pietre avremmo potuto cambiare tutto”. Il suo sguardo si è poggiato sulle foreste appena abbattute di Jebel Abu Ghneim. “Adesso mi sento come se avessi preso cinque anni della mia vita e li avessi buttati al vento”.
Mentre lasciavamo l’università si è voltato indietro con nostalgia. Dopo la cerimonia delle lauree del giorno successivo non avrebbe più avuto niente da fare lì e probabilmente non lo avrebbero più fatto entrare nel campus. La biblioteca che lui amava tanto sarebbe diventata irraggiungibile, e temeva che l’inglese che gli era costato tanto cominciasse a sfuggirgli, una parola dopo l’altra.
Mentre camminavamo per le strade affollate lì intorno, Raed si è girato verso di me, chiedendomi se volevo visitare la chiesa della Natività. Sì, gli ho detto, dato che non l’avevo mai vista.
Si è fermato, guardandomi stupito. “Ma come può essere? Sei stata qui tante volte. Ogni cristiano che viene in Israele visita la chiesa della Natività!”.
“Raed”, gli ho detto, “non mi hai mai chiesto di che religione sono”.
Ha spalancato gli occhi. “Allora”, ha detto infine, “di che religione sei?”.
“Sono ebrea”.
Ha girato su se stesso, ha attraversato la strada con ampi passi, e si è messo a battere le mani su un alto muro di pietra dalla parte opposta. Era voltato di schiena, rispetto a me, e a un certo punto si è piegato come se qualcuno lo avesse colpito allo stomaco. È rimasto così per diversi minuti. Quando si è infine rialzato e si è girato verso di me, stava ridendo.
“Non riesco a metterli insieme… ‘Jir’ e ‘Jewish’ (ebrea). Sono due parole che non appartengono alla stessa frase. Per tutta la mia vita i sinonimi di ‘Jewish’ sono sempre stati cose brutte: soldati, invasori. L’odio viene piantato nei nostri cuori fin dall’infanzia. E ora, ‘Jir’ e ‘Jewish’…”.
Non sapendo cosa altro fare, abbiamo continuato in direzione della chiesa, seguendo un gruppo di suore, e siamo entrati nei suoi recessi freschi e in penombra. Abbiamo ascoltato per un po’ il mormorio delle loro preghiere e il loro canto dolce e sommesso, e poi siamo riusciti, sbattendo gli occhi per riabituarci all’accecante luce del sole.
Raed si è girato e mi ha guardato come se non ci conoscessimo. “Non riesco proprio a capire”, ha detto, “perché tu, un’ebrea, mi hai voluto aiutare”.
Avrei potuto dirgli che lo avevo fatto per Israele, affinché diventasse un insegnante invece che un terrorista. O che lo avevo fatto per me stessa, perché avevo deciso di fare la giornalista nell’ingenua convinzione di poter cambiare il mondo ed ero rimasta delusa quando avevo scoperto che non potevo. Invece gli ho detto la cosa più semplice: che avevo alimentato le sue speranze facendo entrare Rex Repass nella sua vita, e che mi era sembrato troppo sleale abbandonarlo quando questa speranza gli era stata sottratta.
Stava ancora scuotendo la testa, e mormorava “Jir e Jewish”, quando ci siamo seduti in un piccolo caffè. “Quando mi hai detto che non eri cristiana non mi sarei mai aspettato questo”, ha detto.
“Allora”, gli ho chiesto, “cosa pensavi che avrei detto?”.
“Pensavo che mi avresti detto che eri buddista!”.
Tornati al campo, quel pomeriggio, abbiamo fatto visita a entrambe le sue famiglie. “Devo mostrare rispetto verso mio padre, non importa quello che c’è stato fra noi”, mi ha spiegato. “Nella nostra società un figlio non può tagliare così con suo padre, o nessuno lo accetterà più”. Suo padre, affabile come sempre con l’ospite, mi ha mostrato orgoglioso l’ultimo figlio partorito da Fatin, un bimbetto paffuto più o meno grande quanto mio figlio.
L’odore del fieno e del gelsomino
Al tramonto siamo usciti dalle stanze affollate e siamo saliti sulle colline a ovest. L’aria profumava degli odori estivi del fieno e del gelsomino. In lontananza, nell’oscurità che si infittiva, tremolavano le luci di città distanti. Raed me ne ha detti i nomi: Beit Ommar, un vecchio villaggio arabo. Gush Etzion, un recente insediamento ebraico. “Le luci israeliane sono diverse da quelle palestinesi”, ha detto Raed. “Le luci israeliane sono regolari, logiche. Quelle palestinesi sono un guazzabuglio”. Mi ha sorriso, orgoglioso di essersi impossessato di quel misterioso elemento dell’inglese idiomatico.
Mi ha parlato di quello che aveva fatto dopo gli esami finali a febbraio e di quello che progettava di fare nella vita futura. Nei suoi sogni, avrebbe finito gli studi, ma sapeva che era ora che guadagnasse i soldi per riparare la sua baracca traballante, pagare le cure necessarie per la malattia di sua madre, aiutare le sue sorelle e, infine, cominciare a risparmiare per poter pagare il prezzo proibitivo del suo stesso matrimonio, in una società dove si esige ancora che gli uomini paghino doti elevate. A ventisei anni soffriva di oppressione al petto per lo stress derivato da tanti obblighi.
Riluttante, aveva abbandonato completamente il sogno di diventare insegnante. Era difficile trovare simili lavori ed erano pagati poco, appena 300 dollari al mese, troppo poco per tutte le responsabilità che aveva. Si era “avventurato in Israele”, mi ha raccontato, e aveva lavorato a Tel Aviv, come tanti altri palestinesi. Nella maggior parte dei casi la polizia chiudeva un occhio sulle migliaia di lavoratori che affluivano ogni giorno dalla Cisgiordania, aggirando il posto di blocco proprio sotto gli occhi dei soldati che avrebbero dovuto controllare il confine. Ma di tanto in tanto si applicavano misure più severe per la sicurezza. Raed, che serviva ai tavoli in un caffè di Tel Aviv, era stato arrestato in una simile occasione. La polizia lo aveva maltrattato di fronte ai padroni del ristorante. “Stavano lì a guardare, mentre mi picchiavano, come se stessero guardando un film”, mi ha raccontato.
“Incontrerò una straniera”
Aveva ogni sorta di progetti folli per il futuro. Voleva risparmiare per andare in India, diceva, perché aveva sentito che lì potevi comprare un passaporto indiano e poi tornare in Israele come lavoratore straniero in regola. E avrebbe fatto richiesta per un posto nel nuovo e discusso casinò a gestione austriaca che stava per aprire a Gerico. “Incontrerò una straniera, lì, e la convincerò a sposarmi e poi forse potrò fare l’insegnante nel suo paese”.
Quando gli ho fatto notare che non mi sembrava una solida base per un matrimonio, mi ha guardato stupito: “Jir, uno che sta annegando si preoccupa perché è bagnato?”.
Il giorno dopo la cerimonia di laurea sarebbe andato a Gerico, per iniziare un periodo di prova come croupier. Tornati al campo siamo stati svegli fino a tardi, mentre cercavo di insegnargli i rudimenti del poker e del blackjack. Non conosceva nessuno dei due giochi, né i nomi dei semi né delle figure.
“Questo è l’asso di cuori”, ho detto.
“Quella forma si chiama cuore?”, mi ha chiesto, sorpreso. “A me sembra una fetta di carne”.
L’opposizione degli abitanti al casinò era forte. Per i musulmani il gioco d’azzardo è peccato, e Hamas, il movimento fondamentalista islamico, aveva denunciato pubblicamente il “casinò del diavolo”, sostenendo che lì “la gente berrà il sangue ancora caldo dei martiri e ballerà al ritmo dei gemiti dei feriti e dei prigionieri”.
Se Raed avesse preso il posto, però, il salario sarebbe stato quattro volte quello che poteva guadagnare altrove. “So che è una cosa completamente immorale”, ha detto, tentando goffamente di mescolare le carte. “Ma un uomo morto si preoccupa di essere ucciso?”.
Il giorno dopo, alla cerimonia, sedevo fra le due madri di Raed, ben incastrata su un’alta panca nel grande auditorium dell’università. Rahme indossava la tradizionale tunica nera, col davanti ricamato a punto croce con fili di seta arcobaleno. Fatin, che era cresciuta nella regione del Golfo Persico, era avvolta in un ampio mantello scuro. C’erano pochi costumi tradizionali come quelli, sparsi nella vasta sala: la maggior parte dei genitori erano palestinesi cristiani della classe media, e indossavano completi occidentali e vestiti firmati.
Quando ho aperto il programma della cerimonia per cercare il nome di Raed, l’ho trovato contrassegnato da una stella: fra gli oltre sessanta studenti che si laureavano nel suo corso, era uno dei dieci che aveva ricevuto una nota di merito. Mentre Raed andava verso il palco per prendere il suo diploma, Rahme e Fatin sono esplose nel tradizionale, acuto ululato con cui le donne arabe di tutto il mondo esprimono la loro gioia.
Volevo unirmi a loro, ma non riuscivo a condividere quella gioia. Sul palco un noto funzionario del governo palestinese ha fatto un discorso in cui invitava gli studenti a non accontentarsi del diploma di primo grado, ma a continuare la loro formazione. Speravo che si fermasse un attimo a riflettere sull’effetto che tali parole avrebbero avuto su persone come Raed; a come sminuivano la sua soddisfazione di quel giorno, oscurandola con visioni di un futuro irraggiungibile.
Fuori, dopo la cerimonia, gruppetti di laureati si fermavano con amici e parenti, fotografandosi a vicenda. Raed aveva preso una macchina fotografica in prestito e andava qua e là, posando vicino alle fontane e ai roseti con tutti gli amici conosciuti a lezione. La luce stava calando quando un funzionario dell’università gli si è avvicinato e, scusandosi, gli ha fatto notare che doveva restituire la sua toga e il tocco, perché il campus stava per chiudere per la notte.
Ho aspettato al cancello che le ultime famiglie rimaste uscissero, ridendo insieme mentre si avviavano ad altri festeggiamenti.
Raed è apparso, camminava a testa bassa. Ha attraversato velocemente il cancello. Questa volta, non ha guardato indietro.
(Traduzione di Francesca Terrenato)
Questo articolo è uscito il 30 luglio 1999 nel numero 294 di Internazionale. L’originale era uscito sul quotidiano statunitense The Washington Post, con il titolo Arms and the boy.
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