Questo articolo doveva essere pubblicato il 5 agosto 2020. Raccontava la storia di una gioventù disincantata in un paese che non ha più nulla da offrirle. “Ha ancora senso dopo l’esplosione del porto che ha devastato Beirut il 4 agosto?”, ci siamo chiesti in redazione. Abbiamo ritenuto che ce l’ha, forse ancora più di prima. Ancora più di prima la gioventù libanese si sente presa in ostaggio e, nella stragrande maggioranza dei casi, pensa solo a partire. Compresa quella gioventù dorata, che ha trascorso l’estate nella località turistica di Faqra e i fine settimana nei bed & breakfast più lussuosi del paese e per cui la crisi (quasi) non esiste. E compresi anche alcuni di quei rari privilegiati che hanno accesso ai dollari, per i quali la vita in Libano non è mai stata così economica.
“Dal giorno dopo l’esplosione io e mio marito abbiamo preso la decisione: facciamo i bagagli e partiamo per Dubai”, racconta Nayla, 35 anni, che sperava di poter restare in Libano almeno fino alla fine dell’anno, nonostante la crisi. “Per la prima volta ho sentito che i miei figli erano in pericolo e che io non ero in grado di proteggerli”, confessa con un nodo alla gola. “L’esplosione ha rafforzato il mio desiderio di lasciare il paese al più presto, di andare in un posto in cui non siamo costantemente traumatizzati”, si sfoga Marc (il nome è stato cambiato), un regista di 31 anni. È un duro colpo, perché a lungo i giovani hanno dato l’impressione di vivere nel rifiuto della realtà.
Facciamo un balzo indietro, al giugno del 2016. Sono le 22. Ammassati intorno alla lunga piscina di un lussuoso stabilimento balneare a Kaslik, una località a nord di Beirut, circa cinquecento studenti si dimenano al ritmo delle musiche di Drake e Rihanna. Una scena banale: è una serata d’estate come tante altre, in cui le zaffate di alcol si mescolano alle lunghe spirali di fumo delle sigarette e all’odore del mare. Ma quella sera i ragazzi brindano al loro futuro. “Avevo appena preso il diploma, stavo per entrare nel mondo del lavoro e vedevo per me un avvenire grandioso”, ricorda Jad, che oggi ha 24 anni. “Avevo così tanta speranza!”, sospira.
I traumi del passato
Spesso disincantati, a volte distaccati, i giovani portano su di sé i traumi di un Libano che non si è preso il tempo di fare pace con il proprio passato. In un paese politicamente paralizzato dalla fine della guerra, molti ragazzi hanno scelto di vivere alla giornata, approfittando di quel poco che il Libano gli può offrire, anche a costo di dare un’immagine riduttiva e poco lusinghiera. Un’ampia fetta dei giovani sembra non avere altra preoccupazione che quella di fare festa, sempre e ovunque, di voler lasciare il paese al più presto o di farsi una posizione grazie alle relazioni familiari. I più benestanti dettano il modello di riferimento con le loro serate stravaganti, gli abiti di lusso e i telefoni all’ultimo grido. Le rare volte che la politica bussa alla porta, come nel caso delle elezioni studentesche, sono i partiti tradizionali a muovere le fila, rafforzando la sensazione che le giovani generazioni non abbiano voglia di rompere con il Libano dei loro genitori.
La situazione però è tutt’altro che idilliaca. Per i nuovi diplomati, l’ingresso nell’età adulta è un percorso a ostacoli. Alcuni già si trascinano dietro il peso dei debiti contratti per poter accedere a un sistema universitario dominato dai privati, e tutti devono fare i conti con una disoccupazione giovanile che, ufficialmente, raggiunge il 36 per cento. In teoria, ci sono già tutti gli elementi per favorire un sussulto collettivo verso il cambiamento, in un paese che non offre alcuna prospettiva di futuro, e dove l’età media della popolazione è 26 anni. Eppure in quel periodo ancora si esalta la “resilienza” del Libano, senza presidente da due anni. Nel 2016 la crescita oscilla tra l’1 e l’1,8 per cento, ma una brezza fresca soffia sulla scena politica.
L’ingresso senza precedenti di Beirut Madinati (Beirut la mia città) alle elezioni municipali di maggio segna i primi passi della società civile e attrae una parte dei giovani che tentano di rompere con le dinamiche comunitarie e di emanciparsi dalle affiliazioni o dalle simpatie settarie familiari. Beirut Madinati non riesce a reggere il confronto con i due principali blocchi politici, l’Alleanza dell’8 marzo e l’Alleanza del 14 marzo, ma i risultati ottenuti (circa il 30 per cento dei voti) vanno oltre il piano simbolico, ampliando la breccia aperta un anno prima dalla campagna “Voi puzzate!”, che aveva l’obiettivo di denunciare l’inerzia e la corruzione delle autorità nella crisi dei rifiuti.
Il susseguirsi degli eventi indica un desiderio di rinnovamento, ma i tentativi di cambiamento si scontrano con un sistema resistente e ben oliato. La società civile ottiene solo un seggio alle elezioni legislative del 2018, mentre una parte dei giovani si richiude nei riflessi comunitari o si disinteressa alla politica. Il voto d’altronde è segnato da un forte astensionismo: l’affluenza si ferma al 49,2 per cento, contro il 54 delle elezioni di nove anni prima. “Pensavo che le elezioni del 2018 avrebbero permesso di migliorare le cose. Ma è solo peggiorato tutto: la disoccupazione, il razzismo, l’ingiustizia e la corruzione”, riassume Khaled, un ingegnere di 27 anni originario di Tripoli.
Per essere una rivoluzione, c’è un’atmosfera amichevole e la festa è sempre dietro l’angolo: si intonano i canti rivoluzionari e si balla in piazza
Ma i semi gettati negli ultimi anni alla fine sono germogliati. Poco dopo sono cominciati a emergere dei movimenti che hanno messo al centro le questioni socioeconomiche, proponendo delle alternative a una gioventù soffocata, che non si riconosce più nei discorsi dei partiti tradizionali.
Bisognerà attendere il 17 ottobre del 2019 per vedere esplodere le frustrazioni e la rabbia dei giovani. Senza distinzione di classe sociale o gruppo confessionale, sono loro in prima linea nelle enormi manifestazioni che investono tutto il paese. La parola d’ordine “Kellon yaani kellon” (Tutti vuol dire tutti) lascia improvvisamente immaginare qualunque possibilità, anche quello che era (quasi) impensabile: la speranza di reinventare il Libano di domani. “Era arrivato il momento di dare una bella lezione ai politici”, esclama Nay, 22 anni.
Per la prima volta ci si riunisce giorno e notte nelle tende allestite negli spazi pubblici del paese, ci si scopre, traboccanti di idee per costruire “il dopo”. Gli ultimi arrivati si uniscono a quelli che hanno avuto un risveglio politico nel 2015. Per essere una rivoluzione, c’è un’atmosfera amichevole e la festa è sempre dietro l’angolo: si intonano a squarciagola i canti rivoluzionari, si balla nelle piazze in mezzo ai venditori di pannocchie, mentre i lampioni tornano a illuminare le strade del centro di Beirut, lasciato quasi all’abbandono da anni.
La caduta del governo di unità nazionale di Saad Hariri dopo dieci giorni di proteste incoraggia i manifestanti e li sprona a continuare a scendere in strada. “Per la prima volta ho sentito che le mie parole esistevano, mi sono sentito ascoltato”, afferma Marc. “Ci sono stati un mese o due di euforia, durante i quali ci siamo appropriati del paese e della nostra identità libanese. Ho creduto che saremmo stati la generazione che avrebbe potuto cambiare le cose”, sospira emozionato.
Linea rossa
Il risveglio è come uno schiaffo in faccia. L’entusiasmo e la speranza delle prime settimane lasciano il posto alla disillusione e allo sconforto. Il crollo vertiginoso della lira, le restrizioni bancarie, lo stallo politico, il tutto esacerbato dalla pandemia di covid-19, tracciano una linea rossa su un futuro variopinto che si era appena osato intravedere.
Inoltre, la stagnazione politica, l’iperinflazione e la carenza di beni di prima necessità danno la sensazione che la storia si stia ripetendo. “Mio nonno è andato in pensione durante la guerra civile e dopo 40 anni di servizio in un’istituzione pubblica ha ricevuto una miseria a causa dell’inflazione dell’epoca. Oggi tutti i risparmi di mio padre sono andati in fumo, dopo una vita intera passata a lavorare duramente”, dice Marc sconfortato. “Chi mi dice che non mi succederà lo stesso fra trent’anni? Oggi arrivano al potere i nipoti degli stessi politici che tengono le redini del paese da decenni. Basta!”, s’infervora.
I giovani ormai non hanno che un pensiero: andarsene, lontano e subito. Fare quello che i loro genitori o i loro nonni hanno fatto o non hanno osato fare. “Ho capito che non sarei riuscito a raggiungere i miei obiettivi restando: non avrei potuto sposare la mia compagna né fare carriera”, sospira Khaled, che ha lasciato il Libano alla fine di agosto e sta prendendo un secondo master in Francia. “I miei genitori tra un po’ mi buttano sull’aereo, seguono da vicino la procedura e mi chiedono giorno e notte a che punto sono con le richieste”, racconta Marc, che ha fatto domanda per emigrare in Germania, in Canada o negli Stati Uniti. “E comunque, continuano a sostenere certi partiti politici. Non capiscono proprio che io parto perché loro hanno votato per trent’anni gli stessi partiti”, commenta desolato.
I dati non incoraggiano i giovani a fare la scommessa di restare per costruirsi un futuro in Libano, dove le opportunità si fanno sempre più scarse. Secondo un rapporto della società di statistiche Infopro, uscito a luglio, circa un terzo dei dipendenti nel settore privato ha perso il posto di lavoro nel 2019, dall’anno scorso un’azienda su cinque ha chiuso i battenti (di cui la metà nel 2020), mentre oltre la metà delle cinquecento imprese prese in considerazione ha dichiarato di aver ridotto i salari dei dipendenti o il numero di ore di lavoro. Il tasso disoccupazione è esploso, e supera ormai il 30 per cento. Per fare un confronto, secondo uno studio dell’Amministrazione centrale di statistica concluso nel marzo del 2019, l’anno scorso la disoccupazione era all’11,4 per cento.
La grande diaspora
“Quando abbiamo fatto domanda a settembre per ottenere un permesso di soggiorno permanente in Canada lo consideravamo solo un piano b, a cui speravamo di non dover ricorrere”, spiega Caren, 32 anni, ex capo progetto nel settore delle tecnologie digitali e madre di due gemelli piccoli. Per Caren e suo marito, entrambi retribuiti in lire libanesi, l’instabilità e le ripercussioni economiche della svalutazione della moneta hanno accelerato la decisione di lasciare tutto una volta ottenuti i documenti a gennaio.
Secondo le ultime cifre ufficiali, il 45 per cento dei libanesi vive sotto la soglia di povertà e il 22 per cento vive in povertà estrema. “Credo che oggi viviamo una situazione più critica e più difficile che durante la guerra sotto le bombe”, commenta Choghig Kasparian, che insegna all’Università Saint-Joseph di Beirut e in passato ha diretto l’Osservatorio universitario sulla realtà socioeconomica (Ourse).
Anche in questo caso, la storia sembra ripetersi in un paese che ha già vissuto diverse grandi ondate di emigrazione, accompagnate, a volte, da una buona dose di sofferenze. Con circa 15 milioni di libanesi che vivono all’estero, compresi i discendenti di emigrati che non hanno la cittadinanza, la diaspora libanese oggi è una delle più grandi al mondo in rapporto alla popolazione. “L’economia libanese non è mai riuscita ad assorbire la manodopera istruita e qualificata, il Libano ha sempre fornito una parte della sua forza lavoro all’estero, questa non è una novità”, osserva Kasparian.
Mentre tra il 1975 e gli anni novanta le famiglie partivano soprattutto a causa della guerra civile, negli ultimi vent’anni i motivi dell’emigrazione sono stati principalmente economici. Secondo uno studio richiesto dalla Commissione europea e realizzato tra il 2014 e il 2016, il 16 per cento dei libanesi tra i 15 e i 29 anni desidera emigrare, soprattutto a causa delle condizioni di vita e dei salari bassi. “Prima la difficoltà era avere soldi, ottenere una borsa di studio o un visto d’ingresso per il paese scelto”, spiega Kasparian. “Oggi a questo si aggiunge il problema di trovare un modo per finanziare il viaggio nonostante le restrizioni bancarie”.
Caren e suo marito l’hanno vissuto sulla loro pelle, quando la crisi li ha costretti a rivedere al ribasso i loro progetti. “Pensavamo di arrivare in Canada con una somma che ci sarebbe bastata per vivere un anno. Alla fine abbiamo dovuto cambiare tutto sul mercato nero: ci siamo ritrovati con un quarto della somma originale”, racconta. “Qui mi sento frustrata e incastrata”, spiega invece Nay, che quest’anno avrebbe dovuto frequentare un master negli Stati Uniti, ma è bloccata in Libano. “Prima non potevo partire a causa della chiusura dell’aeroporto per la pandemia. Ora non posso più permettermelo economicamente”, osserva.
I giovani con la doppia nazionalità hanno un bel vantaggio sui connazionali che devono sottoporsi alle interminabili procedure per la richiesta del visto. “Mi chiedono tutti come abbiamo fatto, se ci siamo rivolti a un avvocato. Sono in un gruppo WhatsApp che riunisce alcuni libanesi che stanno per partire per il Canada. A settembre eravamo in cinquanta. Oggi siamo talmente tanti che sono stati creati altri due gruppi: uno per chi sta preparando i documenti e l’altro per chi ha già presentato la domanda”, precisa Caren.
Restano gli irriducibili, quelli che vogliono rimanere a ogni costo, quelli che non immaginano la propria vita altrove, quelli che vogliono ancora battersi per cambiare il paese. Come Rafif, una traduttrice di 26 anni che vive a Nabatiye. “Mio marito e io non abbiamo mai veramente pensato di lasciare il Libano. Le nostre vite sono qui: i nostri amici, le nostre famiglie, il nostro lavoro”, spiega. “Ormai viviamo giorno per giorno, non sappiamo quale sarà il futuro dei nostri figli. Onestamente, cerchiamo di non pensarci troppo per non deprimerci”.
Altri vogliono continuare a sperare. “Credo moltissimo nella rivoluzione, quello che abbiamo cominciato un anno fa non si è concluso”, insiste Tala Ladki, che ha 25 anni e lavora a Beirut come freelance nel campo dei social network e della pubblicità. “Non bastano un giorno o due. Ci vogliono anni per fare delle riforme concrete e tangibili”, sottolinea.
Ma quelli che per scelta restano aggrappati al Libano sembrano essere una minoranza, come se il paese si stesse svuotando delle sue forze vitali proprio nel momento in cui ne avrebbe forse più bisogno. Il peggio è che chi parte oggi non ha intenzione di tornare. “Se parto nell’ottica di tornare, non sarò felice né qui né lì. Innanzitutto voglio dare ai miei figli quello che io non ho potuto avere: un passaporto diverso da quello libanese e la possibilità di fare ciò che vogliono indipendentemente dall’appartenenza religiosa o dalla wasta”, dice Caren, riferendosi alle raccomandazioni e alle connessioni personali. “Anche se dico che detesto il Libano per le sue caratteristiche economiche e politiche, tutte le mie relazioni sono qui, i miei amici, la mia famiglia”, aggiunge Nay. “Ma non tornerei mai ad abitarci. Non c’è più un futuro per me. Vivrei ovunque tranne che qui”.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it